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LETTERA IX.

AL PROF. DIEGO ORLANDO

SULLA

SUCCESSIONE AI TITOLI DI NOBILTÀ IN SICILIA

E risaputo (1) che i titoli di nobiltà in Sicilia si trasmettevano per diritto di successione, perfettamente come i feudi e colle stesse regole dei medesimi.

Non era mestieri di un feudo per attaccarvisi un titolo, giacchè sopra piccoli fondi, sopra ville, e anco sopra semplici palazzi accordaronsi talvolta, come avete osservato in una delle vostre dotte opere (2), e talvolta pure sopra i soli cognomi. Nè altre peculiari leggi han regolato mai in Sicilia le successioni dei titoli di nobiltà per non interrotta, ma costante giurisprudenza.

Per iscorgersi adunque qual era il diritto siculo per la successione ai titoli di nobiltà altro far non è d'uopo che ricordar per sommi capi quali eran le leggi che governavan la Sicilia per la successione dei feudi.

L'origine dei feudi essendo unica, riconosceasi solo dalle concessioni del principe. Ma doppio si ritenne per le leggi normanne il modo di autorizzare i diritti di successione; jure Francorum cioè, e jure Longobardorum. I Franchi riguardando il feudo come individuo non

(1) v. Villabianca, Sicilia Nobile, p. 2, lib. 1, tom. 1, pag. 165 e 203. (2) Orlando, Il Feudalismo in Sicilia, cap. IV, pag. 97, n. 74.

accordavanne la successione che al primogenito; i Longobardi ritenendolo come dividuo a tutti i figli lo dividevano (1).

Per nuovi ordinamenti comuni a Napoli ed a Sicilia fu estesa la successione oltre i discendenti al terzo grado dei collaterali (2). Ciò che costituì il diritto pubblico feudale sino agli Aragonesi.

È d'allora che come a voi più d'ogni altro è ben conto un nuovo ordin di cose s'introdusse. La Sicilia per serbarsi fedele ai suoi legittimi sovrani, gli Aragonesi, soggiacque alla sventura d'una scomunica fulminatale dal francese papa Martino, che volea renderla soggetta agli Angioini, i quali usurpato avevano il reame di Napoli. Poichè essa avea spregiato le franchigie e le promesse di papa Onorio, il quale per attirarla al mal intento le offriva pur anco di estendere (come in Napoli gli Angioini aveano esteso) sino al quinto grado la successione ai feudi tra' collaterali.

Giacomo di Aragona, grato pei sacrificii patiti, estese col famoso capitolo xxx Si aliquem in pro dei suoi fedeli Siciliani la successione ai feudi sino ai trinepoti; cioè al sesto grado fra' collaterali. Siffatta concessione fu confermata dal re Federico suo fratello col capitolo xx Constitutionem editam.

-

Fu dottrina ricevuta, come insegnata dai due famosi giureconsulti Bulgaro e Pileo, dei quali fa tanta lode Gian Vincenzio Gravina (3), che ove nelle concessioni leggasi la clausola sibi et suis haeredibus et successoribus in perpetuum, era chiamato a succedere qualunque erede fosse pure un estraneo.

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Questa dottrina fu anche ritenuta dallo illustre giureconsulto Guglielmo Perno (4) rinomato discepolo del De Marinis, e quindi da una schiera di intelligenti feudalisti; ma non fu ritenuta dal Governo, il quale dopo intesa più volte la real camera, pubblicò la conosciuta prammatica del 14 novembre 1788 esplicativa del capitolo Volentes di

(f) v. Dragonetti, Origine dei Feudi di Napoli e di Sicilia, p. 2, cap. 5, § 1x. Gregorio, Considerazioni sopra la storia di Sicilia......... Pag. 612.

(2) v.

(3) De ortu et progressu juris civilis, cap. 146 e cap. 149.

re Giacomo, per cui fu in modo solenne dichiarato, che i feudi crano riversibili al fisco, in mancanza di legittimi successori in grado. -E successori in grado come si è ricordato si ritennero oltre ai discendenti, i collaterali sino al sesto grado, e anche sino al settimo, secondo il parere dei più accreditati scrittori del nostro dritto feudale (1). Cadeva intanto il reame di Napoli sotto il dominio dell'occupazione francese, e la legge del 2 agosto 1806 abolitiva del feudalismo conservando i titoli di nobiltà, limitavane la successione dei collaterali sino al quarto grado. Non avveniva così per la Sicilia, la quale rimasta soggetta in quell'epoca alla dinastia dei Borboni, mentre affrancavasi nel 1812 dagli abusi feudali, ritenea come a riconferma di premio illesi i dritti di successione ai titoli di nobiltà, E fu prescritto (2), che abolivasi la feudalità, confermando però l'ordine di successione che attualmente godevasi, -e conservando ogni famiglia i

titoli e le onorificenze.

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Il progresso dei lumi,—le esigenze del secolo, -i mutamenti poli. tici reclamavano intanto un corpo di leggi che rispondesse ai tempi e s'adattasse all' opportunità delle circostanze; — e quindi pubblicavasi il novello codice del 1819. Ma ben comprese il legislatore, che molte cose o non potevano o non dovevano far parte del codice novello. Epperò con maturità di consiglio proclamavasi che tuttociò di cui il codice non trattava, e tuttociò che non era abrogato, e che non veniva in contraddizione colle leggi novelle restava fermo e vigente in tutta la sua forza.

Era perciò che colla legge del 21 maggio 1819 si dichiarava che per Napoli le leggi e i decreti pubblicati durante la occupazion militare avrebbero continuato ad aver vigore, ove non formassero oggetto del nuovo codice; e per la Sicilia, le costituzioni, i capitoli del regno, le prammatiche, le sicule sanzioni, i reali dispacci.

È della successione ai titoli di nobiltà appunto che le nuove leggi non trattarono Quindi ben a ragione il foro napolitano ritenne, che

(1) v. Cannezio, In cap. Si aliquem, p. 233. Camia, In cap. Si aliquem, p. 100.

la legge del 1806 fosse per Napoli la legge imperante; ma per parità di principii doveva ritenersi, che con siffatta legge giudicar non si dovessero le cause dei Siciliani. Giacchè per costoro non le leggi murattine imperavano in difetto di speciali disposizioni del nuovo codice, ma le leggi sicule, anteriori al codice, e ch' erano rimaste nel loro pieno vigore.

Siffatta distinzione importante e di base non fu per tanti anni nè anco ventilata.

I processi esaminavansi senza contrasto colle norme della legge del 1806; nè ebber mai cura i Siciliani di sostenere la diversità del loro dritto, nè mai si occuparono i decidenti di una siffatta sostanziale differenza. Fu nell'occasione del titolo in mia persona ricaduto che col maggior apparato di solennità fu messa in disamina siffatta quistione che decisa in massima, fu dal re diffinitivamente approvata. Ed eccone il come, che non sarà discaro a voi maestro in cosiffatti studi il conoscere, onde completare il prezioso vostro lavoro sul feudalismo. Al nobile rampollo della celeberrima famiglia dei Conclubetti Girolamo Arena, insigne giureconsulto, alto magistrato, reggente della Giunta di Sicilia, consigliere della r. Camera di s. Chiara tantorum meritorum recordatus, re Carlo III concedeva per se, suoi eredi e successori in perpetuo jure siculo il titolo di marchese.

Perdendo Arena il suo primogenito, e avendo maritata la sua unica figlia ed erede Eleonora a Carlo Mortillaro barone del Ciantro Soprano implorava trasferirsi il suo titolo nel cognome del genero suo. - E il re con dispaccio del 1713 il concedeva jure siculo in perpetuo in domo praeclarissima Mortillaro (1), disponendo di potersene fregiare non che cognome, ma imporlo sopra qualunque lor terra o feudo. Ond'è che in vivenza del suocero e possedendo una villa di lui, nomossi Marchese di Villa Arena, Carlo Mortillaro; e di Marchese presero le loro rispettive investiture i successori di lui in linea diretta.

nel

Fu Carlo Mortillaro e Lavia l'ultimo investito, che morto senza prole ebbe a successore me suo più prossimo discendente stretto a

lui in quinto grado, cioè infra di quello dal giure siculo voluto; giure col quale chiesi di dover essere giudicato.

La R. Commessione dei titoli di nobiltà rivenendo dal passato sistema uniformandosi alla data requisitoria del procurator generale della Corte suprema Stanislao Falcone, trovò fondata in dritto ed in fatto la dimanda, e inoltrò avviso al re che potea di pieno dritto riconoscermi come investito del titolo dei miei maggiori. Ciò che praticavasi con rescritto dei 13 febbraro 1856, che formulossi in modo da risolver la massima, e quindi da restar come documento che si fosse rivendicato alla Sicilia un diritto che in via di fatto per circa mezzo secolo l'era stato tolto, e nessuno l'aveva rivendicato; di giudicarsi cioè le genti della Sicilia colle loro particolari leggi, che facean solenne ricordo della speciale esistenza politica di essa.

Palermo 31 dicembre 1856.

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