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a vestra Paternitate procedunt, ut per facti evidentiam demonstratur; quod nunquam credere nequissemus, attenta dilectione mutua, qua invicem iungebamur, et consideratis hostilibus operibus per predictos Ubertinos et Comites factis in annis proxime preteritis in offensam Ecclesie sancte Dei. Qua de re P. V. omni qua possumus affectione rogamus, quatenus pro honore sanctissimi Domini nostri et vestro, et pro debito rationis, vobis placeat desistere ab inceptis, et pedites missos de locis predictis retrahere, dictisque Ubertinis atque Comitibus, proditoribus atque rebellibus, favorem vel auxilium non prebere. (Lettera de' 25 giugno 1404.) E con le pubbliche lettere ne andò una d' Iacopo Salviati, dove pare che, sfogandosi col Tesoriere, la caricasse un po' a' Malatesti. Per che, avendone essi fatta una dolce lagnanza, i Signori e i Dieci n'ebbero a scrivere certe scuse. Magnifici domini (cosi scrivevano i Dieci a Carlo e a Malatesta, il primo giorno di luglio) fratres karissimi. Recepimus vestras fraternas et amicabiles litteras, quibus suspitionem videmini concepisse ob quedam verba scripta per nobilem virum Iacobum de Salviatis, collegam nostrum, reverendo in Christo patri domino Thesaurario Romandiole, quod erga Magnificentias vestras dicta verba voluerit retorquere : quod profecto sue intentionis non extitit. Nam si voluisset sentire de vobis, fraternitatibus vestris scripsisset amicabiliter et aperte; scit enim quantum nostra Comunitas vobiscum indissolubili amicitia sit coniuncta. Et ob id, de mentibus vestris exiliat dicta suspicio: diligit quippe vos nostra Comunitas tamquam fratres et cordiales amicos. Circa alia tangentia Ubertinos et Comites Balnei, nostri Comunis rebelles et hostes, idem dicimus quod magnifici Domini nostri literis suis scribunt. E i Priori, dopo molte cortesie, dicevano: Et quum, sicut asseritis, ab obedientia summi Pontificis vestra devotio nullo modo discederet, postquam ab illorum rebellium nostrorum favoribus alieni prorsus estis; quod sine dubitatione non esset, si favor qui datur eis ab Ecclesia sancta procederet; certissima percipimus coniectura, quicquid fit aliunde procedere, nec hoc dominum nostrum summum Pontificem intentare. Nam si forte sua sint aliqua de his que tenent illi de Bagno, Comites scilicet Mutiliane, et proditor improbus Androinus de Ubertinis, qui cogitaverunt, per manus Ducis Mediolani, nos omnimodo perituros, et nomen Sancte Matris Ecclesie catholiceque Partis Guelfe saltem per Italiam aboleri; non deberet summus Pontifex hec per offensionem nostram, se nostris opponendo ceptis, sed illos tunc impugnando potius vendicare. Nam licet aliqua ex illis sui forte iuris sint, quod nunquam audivimus, longe tamen honestius et cum honore debitaque prestatione, si quid deberetur, maiore tranquillitate patrie, et consolatione subditorum, in manibus nostris erunt, quam inter truces ungues illorum latrunculorum.... Decrevimus etenim, hanc abominationem, hosque rebelles nostros, sicut eorum infidelitas exigit, taliter extirpare, quisquis ipsos iuverit, quod nunquam possint a radicibus pullulare. Ma i Dieci facevano sentire fino in Corte, se non le minacce, i lamenti: chè al cardinale Acciaioli annunziavano la venuta (10 luglio) di quattro ambasciatori dell'antipapa Benedetto, asserentes venire pro unitate Ecclesie sancte Dei; e poi soggiungevano: Sed Sanctitati sue dignemini supplicare, quod nos eius reros filios et devotos dignetur habere cariores Ubertinis atque Comitibus Balnei, hostibus Ecclesie atque nostris, qui, quando potuerunt, in destructionem suam et Ecclesie nil intentatum ullatenus reliquerunt. (Lettera de' 12 luglio.) Con che mostravano di sospettare, che veramente il Tesoriere non facesse di suo capo. Ma giâ egli stesso aveva chiarito il dubbio, mandando a Firenze la copia d'un breve. « Noi ricevemmo questa mattina (rispondevano a' 24 di luglio i Dieci al Vescovo di Feltre) vostra lettera scritta in Talamello a dì 22 del << presente mese, con una copia interchiusa d'uno brieve del santissimo sommo Pontifice << alla V. P. mandato. E inteso il vostro scrivere dell'amore che avete portato e portate al < Comune nostro, ringraziamo la P. V., certificandovi che in corte di Roma non avea << prelato il quale crediamo che più amasse con diritto zelo il Comune nostro, che voi; e << nella vostra persona abbiamo avuta ogni grandissima speranza e confidenzia. E bene vi << confessiamo, che nel principio voi non potesti fare altro, che vi facessi, avendo avuto << il brieve di nostro signore lo Papa, e la lettera del reverendissimo signore messer lo << Legato. Ma non ostante il breve, del quale ci mandate la copia; il quale ser Paulo ci

<< mostrò prima, quando gliele desti; ci pare che voi possiate e dobbiate darci le terre che << furono degli Ubertini e Conti da Bagno, avendo rispetto allo scrivere che sopra ciò v' ha << fatto e mandato il detto messer lo Legato; sotto lo quale voi vi potete scusare a chi « volesse dire il contrario. E se alcuno di ciò vi volesse calunniare, messer lo Legato e << noi saremo vostri difenditori in Corte e in ciascuno altro luogo, per ogni modo. Alla << parte che voi dite, che 'l nostro Commissario stracciò una vostra lettera, e disse certe << parole disoneste, rispondiamo che di questo niente mai udimmo, e abbianne grande << maraviglia e dispiacere, considerata la prudenzia del detto Commissario, che sa l'amore «< che è tra voi e noi. Ma veramente questo dee procedere da mali rapportatori, che dicono << volentieri bugie, e seminano scandali. E nondimeno noi gliene scriveremo per forma, <«< che voi vedrete che noi abbiamo caro il vostro onore. Alle vostre terre, delle quali « scrivete, non sarà fatta offesa o novità alcuna; chè le riguarderemmo come le nostre << proprie ma dell'altre terremo quello modo che crederemo sia buono ». Ma intanto tornava da Bologna Giovanni di Bicci con buone novelle; come appare da quanto scrivevano i Dieci di balia al Cardinale Legato, sotto il 31 di luglio: Ostendit nobis, diebus non longe preteritis, vir nobilis Iohannes Biccii de Medicis civis noster dilectus, literas per Thesaurarium Romandiole et ser Pilingottum Excellentie vestre missas, nec non illas quas rescripsistis eisdem; ex quibus manifeste palpavimus, sicut etiam antea credebamus, dispositionem vestram perfectam ut fortilitias Ubertinorum et Comitum Balnei haberemus; de qua R. P. V. referimus debita munera gratiarum. Sed per literas, quas hodie recepimus a Thesaurario supradicto et a nostro Commissario, qui literas quas a ser Pilingotto receperat etiam nobis misit, colligimus, quod dictus Thesaurarius Reverentiam vestram et nos per verba deducat; et maxime quia, infra certum tempus, infra quod Commissarius noster ad rogamina ser Pilingotti abstinuit ab offensis, idem Thesaurarius fortilitias supradictas peditibus et balistariis, victualibus et opportunis aliis premunivit. Verum est, quod idem Thesaurarius finaliter in literis suis scribit, quod si desiderium nostrum volumus obtinere, modus est, quod Reverentia vestra petat, ut Thesaurarius memoratus fortilitias supradictas in manibus Commissarii vestri ponat, et quod eas faciatis nobis postmodum assignare. E di questo tenore continuavano ad esortarlo di farsi dare dal Tesoriere le fortezze a lui cedute dagli Ubertini e da' Conti di Bagno, per poi consegnarle al Comune di Firenze. Aveva luogo intanto la Commissione di Rinaldo per parte del Signore di Rimini; la quale se trattenne un po' l'armi, non frenò le lettere, ora supplichevoli ed ora minacciose, ora piene di speranza (come quella degli 11 settembre al Coscia, per ringraziarlo d'aver mandato Paolo Orsini dal Tesoriere a farsi consegnare le terre degli Ubertini, quas Comuni nostro rultis concedere) ed ora disperate (lettere de' 22 settembre al Legato, e de' 4 d'ottobre al Tesoriere, dove dicono: providebimus honori nostro), sempre poi vane: chè prima d'aver l'intento, giunse a' Fiorentini la nuova che Bonifazio IX era morto.

Iacopo Salviati, uno de' Dieci, stette dal primo di maggio del 1404 fino alla metà d'ottobre in campo contro gli Ubertini e' Conti di Bagno, come capitano di tutte le genti d'arme, e nella sua Cronica ci lasciò un minuto ragguaglio di quell' impresa. « In questo << tempo (egli scrive), che furno a lato a mesi cinque e mezzo, come succede con l'aiuto <e per la grazia di Dio, e per virtù di dette brigate, disfeci in tutto, e cacciai via di << loro paese detti Ubertini e Conti da Bagno, che niente, solo una capanna, rimase « loro. E tolsi loro, tra per forza, cioè con battaglie asprissime, e per trattati, e « accordi di loro sudditi, e per paura delle battaglie, tutte l'infrascritte loro terre e « casseri ». E qui ne conta un buon numero: d'altre dice, aver consentito che se le prendessero i Signori d'attorno. Ma gli Ubertini e i Conti, veggendosi in tanto esterminio », dettero Civitella, Pondo, Spinello, Favale, Collina e Monte Oriolo al Tesoriere di Romagna : e il Salviati assicura, che tutti i Malatesti fecero ogni lor potere in publico et in < segreto per fornire di fanti e vettovaglie quelle terre, contro al Comune di Firenze. A queste povere terre fece il Capitano de' Fiorentini quel peggio che potè; ma ebbe solo Monte Oriolo per forza di battaglia, e poi l'arse. Sul più bello di questa brutta impresa,

il Salviati era invitato dalla Signoria a tornare in Firenze per esservi fatto cavaliere del Popolo, e ricevere il donativo di secento fiorini d'oro.

A

di 13 d'agosto 1404. Mi rimandò il detto signor Carlo a' sopradetti Signori, insieme col Vescovo di Cesena; et io venni nella forma sottoscritta. Venimo per accordo della guerra facea il Commune di Firenze ad Andreino degli Ubertini et ai Conti di Bagno. Tornai ad Arimino a dì 4 di settembre 1404; e lasciai il detto Vescovo malato a Firenze, perchè così mi scrisse dovessi fare il detto signor Carlo, come appare dappiè tutto.

27] MEMORIA di quello che per parte del magnifico signor Carlo si de' dire a' magnifici Signori di Firenze per messer lo Vescovo da Cesena. Data Arimini, die 11 augusti 1404. E similmente per Rinaldo degli Albizi, podestà d'Arimino.

Prima, raccomandare el prefato signor Carlo a' predetti signori Priori. Secundo, dire ai predetti signori Priori, che audendo il prefato signor Carlo, ch'egli si dolevano di lui e lamentavansi; rimanendo di ciò mal contento, perchè a lui pare non avere fatto cosa alcuna contra al Comune di Firenze, per la quale si debbino dolere; et anche perchè sempre ha desiderato e desidera esser figliuolo e servidore di quello; mandò allora Fra Giovanni Dominici a dirgli, ch'ello avea inteso della lor lamentanza; e non saveva nè posseva imaginare di che si dovesseno lamentare di lui, perchè sa che mai non ha fatto cosa, per la quale ragionevolmente di lui si possino lamentare: et a pregarli che a loro piacesse cercare et investigare, per ogni modo che si posseva, di trovare la verità di quello che gl'inducea a lamentarsi di lui; perchè si rendea certo, egli lo troveriano sanza colpa. Et in quanto si ritrovasse lui avere fatto cosa, per la quale si possesse satisfare, era apparecchiato venire ad ogni satisfazione possibile a lui: e se a lui non fosse possibile la satisfazione, era apparecchiato portare ogni pena possibile e ragionevole. E che audendo la risposta per loro fatta al detto fra Ioanni, per la quale disseno che non si vuole cercare questo, e che egli l'hanno per loro figliuolo et amico, come sempre hanno avuto li loro progenitori, rimane contento, perchè sempre ha desiderato e desidera questo. E questa risposta è a lui gratissima, e di quella gli ringrazia: ma tuttavia saria rimaso più contento, se avesseno cercato di trovare e di sapere la verità delle suoe operazioni; perchè ritrovandosi esser in colpa, ello ricognosceria la loro benignità, e rimarria a quella più obligato; ritrovandosi sanza colpa, l'averiano più caro, e con più pura e sincera fede e intenzione ameriano il figliuolo e servidore,. il quale non gli avesse fallato: e così la giustizia e verità averia luogo.

Terzio, dire che Fra Ioanni gli riporta, che dipoi la detta risposta, egli mandonno per lui; e dissegli, che elli saveano che il Tesorieri non era di tanto animo, che avesse preso quelli luoghi de'Conti da Bagno e degli Ubertini, se da altri non fosse stato confortato e sovenuto alla 'mpresa. A questo elli risponde: ch'ello crede che non è di tanto animo; nè anco averia fatto la 'mpresa da se medesimo: e crede che se da

se medesimo l'avesse fatta, saria stato troppo presuntuoso: ma avisa loro, che messer lo Tesaurerio ha fatto questa impresa di comandamento di monsignore lo Legato; e Monsignore ha fatto questo comandamento per comandamento di nostro signore lo Papa; il quale più volte, da poi che le forteze funno prese per messer lo Tesorieri, ha fatto scrivere a messer lo Tesorieri, che conservi bene quelle. E scusasi, che di tale impresa non s'impacciò mai, nè consigliò per questo modo, nè a quelli ne diè sussidio, nè di parole, nè di gente, nè di danari, nè di biado, nè di cosa alcuna. E perchè siano ben chiari di questo, gli manda la copia d'una sua lettera responsiva a quella di monsignore lo Legato, per la quale ello significava il comandamento avuto da Nostro Signore di pigliare quelle castella, e la deliberazione sua fatta sopra quello comandamento: per la quale copia saranno certi, che di questa impresa non s'impacciarono; e che quella impresa, per quello modo, con suo consiglio nè con sua conscienzia è fatta.

Quarto, dire che 'l detto Fra Ioanni reporta, ch'egli si dogliano che 'l signor Malatesta ha fatto adiutorio e favore al Tesorieri per sostenere la 'mpresa cominciata. A questo elli risponde, ch'ello sa di certo di sè, che al detto Tesorieri non ha fatto favore alcuno; e rendesi certo che così non ha il fratello: ma tuttavia ello prega loro, che voglino fargli vedere qualche cosa che il fratello abbia fatto, secondo che diceno. E di questo si contenteria molto, quando fosse di lor piacere.

Quinto, dire che Fra Ioanni rapporta, che egli gli commisseno che per loro parte ello pregasse el detto Signore che si volesse operare, che di questa impresa si desistesse e relassasse quelle forteze prese al Comune di Firenze. Risponde, che a questo egli intende, che questo lui procuri collo Legato e col Tesorieri, e con Nostro Signore. E se collo Legato e Tesaurieri, dice ch'ello si rende certo, se uno loro inimico gli domandasse consiglio, che elli non lo consiglieria se non di quello che fosse suo onore, e che fosse ragionevole. Ello sa che volontà e comandamento di Nostro Signore è, che messer lo Tesorieri conservi quelle castella per santa Chiesa. Sapendo ello questo, e consigliando il contrario, pare a lui ch'ello verria ad infringere il comandamento di Nostro Signore; e così verria a commettere grandissimo errore, e fare contra suo dovere e suo onore. E pertanto non faccendo ello questo, el denno avere per escusato. Et essendo ello richiesto da Monsignore che mandasse a confortare il Tesaurieri di questa relassazione, rispuose come vedranno per la copia che si mosterrà della lettera mandata al Tesaurieri. Se con Nostro Signore, lui è apparecchiato interporsi, e far ciò che a lui è possibile che quella magnifica Comunità abbia da Nostro Signore in questo la sua intenzione, con modo che a Nostro Signore e santa Chiesa non sia vergogna; e che una volta sian per tal modo divise le fine tra santa Chiesa e la sua Comunità, che non stia ogni dì per insurgere maggiori errori, e crescere subiungendo, che a lui pare, che continuando quello che è cominciato, per cagione de'detti castelli, tra santa Chiesa e il loro Comune, e non se gli ponendo altri rimedii, possa nascere e seguire grandissimi scandali e mali: perchè essendo occupato per quello Comune terra alcuna di santa Chiesa, contro la volontà di Nostro Signore; o il presente, o 'l seguente, o l'altro cercheria di racquistare e di riavere quello ch'ello pensasse esser suo di ragione, e di santa Chiesa; e quelli cercamento e recuperazione non porriano essere sanza grandissimi scandali, danni e mali dell'una parte e dell'altra. E pertanto a lui parria, che quello Comune dovesse cercare esser in concordia con Nostro Signore, e mandare a lui a domandargli quello che volesseno da lui; et ello gli lasseria quello che paresse a lui. E questo saria con utile et onore di Nostro Signore e del Comune; perchè non

si de' volere quello di santa Chiesa, se non con buona volontà di Nostro Signore, e per onestà, e per la forma della ragione. Et acciò che loro sian certi, che quello che ha comandato Nostro Signore non è per favore de'Conti et Ubertini; è certo il detto Signore, che Nostro Signore rimarrà contento a quello che è di sua ragione e di santa Chiesa, di quello che se ne teneva per li Conti et Ubertini predetti; e lassare al detto Comune, di quello che teneano i detti Conti et Ubertini, tutto quello che appartenesse di ragione a detti Conti et Ubertini.

Sesto, dire per parte del detto Signore, che a lui è detto che vogliano andare contra le terre del Tesaurieri armata manu, per cagione della 'mpresa de' castelli de' Conti da Bagno e degli Ubertini, i quali ello ha presi. Considerato di quanta importanza saria questo, non el crede: ma se pure avesseno questa intenzione, priega loro che per Dio voglino considerare, che quello che ha fatto messer lo Tesaurieri è proceduto dal comandamento di Nostro Signore: e così quello che elli facesseno contra 'l Tesorieri sarà reputato da Nostro Signore fatto contra di lui e contra santa Chiesa; e piglierà quelli ripari che gli saranno possibili a difesa di suo stato e di santa Chiesa. E faccendo questo, rendesi certo el detto Signore, che concorreranno molte cose, le quali genereranno grandissimi scandali e mali alle parti, e forse a degli altri, che a queste novitadi non avranno colpa nè peccato. E pertanto non vogliano procedere in questa forma, ma vogliano domandare a Nostro Signore onestamente e pacificamente quello che vogliano da lui; e considerare chi è il Papa e chi è la Chiesa d'Iddio, e con cui pigliano guerra, e per che cagione. Et il detto Signore s' offerisce apparecchiato, non come mezo (perchè mezo non può essere, perchè è parte e suddito di santa Chiesa), ma come servidore e suddito di Nostro Signore, supplicare et intercedere che egli ottengano da lui ogni loro giusta e ragionevole intenzione, e anche grazia.

Settimo, dire per parte del detto Signore, ch'ello sa che quello Comune ha avuto alcuna indegnazione contra il conte Malatesta da Dovadola per cagione de' confini, e alcuni sudditi e possessioni: e posto che a cognoscere questi errori, volendo procedere ragionevolmente, dovesseno seguire el foro del conte Malatesta, il quale è suddito di santa Chiesa; ch'ello gli priega, che voglino che i detti errori si cognoscano e diffiniscano di ragione per uno collegio a nessuna delle parti sospetto; et ello s'offerisce a fare star contento il conte Malatesta a quello che sarà dichiarato di ragione.

Ottavo et ultimo, dire che al detto Signore è stato rapportato, che alcuno fiorentino ha detto, che il Comune di Firenze ha uno in prigione, il quale ad instanzia del conte Malatesta ha avuto trattato in una terra del detto Comune, e che per questa cagione castigaranno el conte Malatesta. A questo dice il detto Signore, che di questo non audì mai più dir covelle, nè sappè mai, nè crede che questo possa essere; perchè il conte Malatesta non è possente tal cosa, volendo, che non credo ch'ello volesse; nè da altri avria sussidio alcuno a farlo: ma se di questo hanno informazione alcuna vera, ch'elle gli priega che gli la voglino mandare, o indizio alcuno; avisandoli, che se il conte Malatesta si troverà avere fallato, in questo vuole essere con loro a punirlo. 28] A tergo: Reverendo patri domino I. Dei gratia episcopo Cesenati, et nobili viro Rainaldo de Albizis potestati Arimini, oratoribus nostris dilectissimis.

Intus vero:

Reverende pater, et nobilis amice carissime. Ho ricevuto vostra lettera, per la quale mi significate il male di voi messer lo Vescovo; e domandate voi Rinaldo, ch'io

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