Auguro, dunque, che l'opera del Pais possa infondere negli Italiani l'amore alla storia di Roma antica, e se cotesto intento sarà raggiunto, l'autore potrà chiamarsi lieto che la sua fatica sia coronata da così felice successo. LUIGI CANTARELLI. G. Romano, L'origine della denominazione « Due Sicilie» e un' orazione inedita di L. Valla. (Estratto dall' Archivio storico per le province napoletane, anno XXII, fascicolo II). È noto che solo nel 1815 nell' uso diplomatico la denominazione Regno delle due Sicilie ebbe origine e venne ufficialmente riconosciuta dai Governi dell' Europa; ma il nuovo titolo che Ferdinando I assunse per motivi di politica interna, ha anche la sua ragione storica e questa risale a tempi molto antichi. Il prof. Romano si è proposto di fare questa indagine sottile e complessa e ha diretto le sue ricerche con molta dottrina e con buona critica. I risultati ai quali è venuto, meritano di essere esposti ai lettori di questo Archivio, perchè dalla curia romana in virtù dei suoi diritti sovrani sull'Italia meridionale derivarono i titoli dei re di questa regione, titoli che legittimavano il godimento di molti diritti ed onori. Naturalmente le ricerche di questi titoli devono essere fatte a preferenza negli atti diplomatici, ma si deve anche tener conto delle denominazioni colle quali i popoli di quella regione designarono il regno dei loro sovrani, perchè l'uso del linguaggio vivente influi sul linguaggio cancelleresco. La bolla d' investitura accordata il 27 settembre 1130 da Anacleto II al re Ruggero, mentre distingue il regno di Sicilia dalle terre cismarine queste designa colle parole Apulia, Calabria e principato di Capua, dà al nome Sicilia un secondo significato, perchè anche attesta che esso indicava la parte principale di quel regno. Da questo secondo significato derivò l'abuso di designare colla parola Sicilia non solo l'isola, ma anche un' estensione territoriale più ampia, vale a dire la totalità formata dall' isola stessa e dalla parte peninsulare del regno. L'abuso cominciò sotto i re normanni e divenne più comune sotto gli Hohenstaufen. Ma questo significato improprio, convenzionale e del tutto politico da abusivo divenne legittimo ed ufficiale quando quella monarchia passò agli Anjou. Questi principi nei loro diplomi s'intitolarono come i re precedenti «< reges Siciliae, ducatus Apuliae, principatus Capuae », ma questa frase ebbe allora un semplice valore tradizionale e cancelleresco, perchè nella bolla d'investitura di Clemente IV a favore di Carlo d'Anjou, venne proclamato il principio della indivisibilità del regno di Sicilia che il papa come sovrano accordava in feudo a quel principe. Quando avvenne la guerra del Vespro e per essa il distacco reale della Sicilia dalla monarchia angioina, i papi da Martino IV in poi e nelle bolle di scomunica contro i re d'Aragona e nella costituzione del 12 maggio 1303 in conseguenza del principio espresso da Clemente IV distinsero in modo esplicito il «< regnum Siciliae » dall'isola omonima e la considerarono come parte di esso. Naturalmente queste furono le vedute anche degli Anjou e per interesse proprio e come feudatari della Chiesa, ma a differenza dai tempi dei re normanni e svevi la Sicilia anzichè parte principale della monarchia divenne parte secondaria. Questo giudizio fu pronunciato in modo esplicito dal re Roberto nel suo testamento ed era naturale che così si pensasse dagli Anjou, perchè la parte peninsulare del regno non solo era più ampia dell'isola, ma anche sino dai primi tempi era divenuta la sede del governo. Ma non avendo mai potuto gli Anjou riprendere l'isola, era naturale che il titolo « Regnum Siciliae », sostituito talvolta anche dall'espressione più semplice « Regnum », pur conservando il suo significato astratto ed ampio, ne acquistasse uno nuovo che meglio corrispondesse al loro reale dominio; infatti esso anche designò la sola «< terra citra Pharum », come è provato da esempi dati dai diplomi angioini e dagli atti della cancelleria papale del tempo di Clemente VI. D'altra parte colla pace di Caltabellotta la Chiesa creò per Federigo d'Aragona il titolo di «rex Trinacriae » sua vita durante; il provvedimento era necessario, perchè per la Chiesa re di Sicilia legittimi erano soltanto gli Anjou e la Sicilia di fronte alle terre cismarine aveva perduto il primato stabilito da Anacleto II. Ma per abuso Federico ed i suoi successori s'intitolarono re di Sicilia, laonde la Chiesa dovette intervenire per regolare i rapporti dei due Stati, e per ciò appunto Gregorio XI colla costituzione del 26 agosto 1372 stabili che l'isola di Sicilia col titolo di regno di Trinacria fosse feudo del regno di Sicilia. Per conseguenza la frase <«< Regnum Siciliae » conservò anche allora pel vincolo feudale il suo significato più ampio, ma soltanto con valore ideale e giuridico, perchè i servizi dovuti dal re di Trinacria a quello di Sicilia non furono mai prestati. I rapporti tra i due regni si mutarono del tutto per le vicende dello scisma d'Occidente. Urbano VI quando depose Giovanna I e ne avocò alla Chiesa lo Stato, stabili che il regno di Trinacria non più dipendesse da quello di Sicilia e che tutti e due stessero sotto la sovranità diretta del pontefice; in tal modo presso la cancelleria papale da Urbano VI in poi e anche presso quella dei re della casa di Durazzo il titolo « Regnum Siciliae » perdette il suo significato ideale e giuridico e non altro designò e in fatto e in diritto che le provincie cismarine. Ma i re dell'isola di Sicilia nonostante le disposizioni di Gregorio XI e di Urbano VI continuarono a designarsi negli atti diplomatici col titolo di « rex Si« ciliae », e però si ebbero nei documenti due serie parallele dei re di Sicilia e nello stile cancelleresco quella frase divenne di significazione incerta. Così rimasero le cose sino al tempo di Alfonso d'Aragona; questo principe già re di Sicilia a titolo ereditario, quando s'impadroni di Napoli divenne re di uno Stato che l'uso diplomatico denominava regno di Sicilia, e però assunse il titolo di «< rex << Siciliae citra et ultra Pharum » già adottato nella costituzione di Bonifacio VIII e anche prima usato dagli Hohenstaufen, p. e. in un atto di Federico II in data del primo luglio 1215, ma con questa sostanziale differenza che Bonifacio VIII considerava le provincie cismarine e l'isola come un regno solo, mentre sotto Alfonso si avevano due regni separati nella loro costituzione e riuniti in via fortuita e formale dalla identità del titolo e dalla comunanza del sovrano. Il titolo non piacque agli umanisti del circolo letterario che si formò a Napoli alla corte di Alfonso e specialmente a Lorenzo Valla. Questi compose nel 1442 un'orazione che il Romano ha pubblicato in appendice al suo articolo traendola dal cod. Vatic. Ottoboniano 2075; il Valla in essa confutò la distinzione tra regno ed isola di Sicilia che quella formula stabiliva, e consigliò il re a sceglierne un' altra nella quale ciascuno dei due Stati conservasse il nome suo proprio, cioè regno di Napoli e regno di Sicilia, e ciò per ragioni di geografia e di convenienza politica. Non si può stabilire quale effetto questa orazione abbia avuto; certo è che dal 1445 nello stile cancelleresco del regno appare il titolo di « rex utriusque Sici« liae », il quale per la ragione di sopra esposta non significava che vi fosse anche un « regnum utriusque Siciliae ». Ma anche questo titolo diede luogo a censure, ed Enea Silvio Piccolomini dimostrò che non corrispondeva alla realtà delle cose. La formula rimase, perchè il significato convenzionale di Sicilia era consacrato dalla tradizione diplomatica, ma accanto ad essa anche negli atti pubblici sorse quella di « Regno di Napoli » in corrispondenza alla ragione geografica e all'uso del linguaggio vivente. In generale i cronisti italiani del secolo xiv e dei primi decenni del xv quando nel racconto non si riferirono ai titoli ufficiali diedero il nome di regno di Puglia alle provincie cismarine e quello di Sicilia alle altre; l'uso ebbe i suoi riflessi anche nello stile cancelleresco, perchè in una lettera di Benedetto XII a Filippo VI re di Francia del 13 maggio 1366 il Napoletano è designato col titolo di regno di Apulia. E qui aggiungo a conferma di quanto il Romano ha esposto, che nei registri delle Obligationes e Solutiones dei censi dovuti alla Chiesa Romana, i quali registri si conservano all'archivio Vaticano, ho trovato che più volte il nome di Apulia vi è stato usato per designare la totalità delle provincie cismarine; così a c. 51 в del registro X in una nota marginale all' obbligazione del vescovo di Castellamare di Stabia del 18 febbraio 1328 quella parola è stata aggiunta dal registratore per indicare la regione di quella diocesi; così a c. 54 A in un' altra nota consimile aggiunta all' obbligazione dell' arcivescovo di Napoli del 30 aprile 1328 (1). Ma nel secolo xv nelle provincie cismarine la frase <«< Regno di Puglia » appare antiquata, perchè è già stata sostituita dall'altra «< Regno di Napoli », della quale vi sono traccie anche nei cronisti dell'Italia superiore e centrale secondo il Romano dal 2 agosto 1376 in poi. G. MONTICOLO. Nitto De Rossi G. B. e Nitti Fr., Codice diplomatico Barese: le pergamene del duomo di Bari, vol. I, in-4, pp. LXXVIII-240, con 10 tav. Trani, Vecchi, 1897. È una pubblicazione che fa onore agli autori e a quella Commissione provinciale di archeologia e storia patria, che proponendosi di dare in luce tutti i documenti che avanzano negli archivi della provincia di Puglia, volle preparare agli studiosi il materiale indispensabile alla storia di questa regione. Il presente volume, primo della serie, fu redatto in collaborazione da Francesco Nitti Di Vito, che si occupò della trascrizione delle pergamene, e da G. B. Nitto De Rossi, che premise alla raccolta uno studio storico. Le centosette pergamene di questo volume furono tutte tratte dall' archivio della cattedrale di Bari e vanno, per oltre tre secoli, dal 952 al 1264, comprendendo in questi anni il periodo della dominazione greca (952-1067; pp. 1-46), il periodo della dominazione » abbia conser (1) Naturalmente ciò non toglie che anche allora la parola « Puglia vato il suo significato proprio e originario; una prova splendida si ha nei capitoli xxxv, XXXVI e xxxvii della Prattica della mercatura di FRANCESCO BALDUCCI-PEGOLOTTI. normanna (1073-1194; pp. 49-123) e quello della dominazione sveva (1195-1266; pp. 127-202). Un Indice, posto prima del corpo del Codice, ci mostra a colpo d'occhio i dati cronologici e il contenuto dei documenti, che a capo della trascrizione, hanno sempre l'indicazione del tempo, del luogo, del rogatario, della dimensione, della scrittura, un transunto brevissimo del loro argomento, le notizie bibliografiche per le poche edite, e una rubrica Osservazioni particolari, per quelle sospettate false, nella quale vengono raccolti i dubbi sulla loro autenticità. Esse son riprodotte con molta cura ed intelligenza, integralmente nella dizione e nella punteggiatura: solo non ci siamo resi completamente ragione del fatto che, mentre il compilatore lascia nel testo anche le lezioni evidentemente errate, notando a piè di pagina le corrette, in parecchi casi invece corregge il testo relegando in nota la lezione scorretta, contrassegnandola con un asterisco (1). Molto opportunamente egli tien conto anche delle variazioni di scrittura, che oltre la consueta corsiva presenta talvolta esempi di capitale onciale e gotica. Queste osservazioni, insieme agli otto facsimili paleografici che accompagnano il volume e che comprendono quasi tutto il periodo (952-1202) rappresentato dai documenti, ci danno un'idea sufficientemente chiara della scrittura barese dal secolo x al XII. Ma il Nitti renderebbe maggior servigio allo studio della paleografia e in ispecie a quello della corsiva se di tutte le pergamene pubblicate e da pubblicare traesse materia per illustrare la scrittura pugliese nel medio evo. Accrescono pregio al volume un accurato Indice dei nomi propri (pp. 212-231) e l'interessante Glossario delle voci basso-latine e basso-greche (pp. 233-240) che nonostante qualche inesattezza (2) reca un bel contributo di vocaboli al lessico del latino medioevale. (1) Perg. 1, p. 3, nota 4 « presentie» e nel testo « presentia »; perg. 3, p. 6, nota I sue e nel testo « suarum »; perg. 8, p. 14, nota I a sede nel testo « sedendi »; perg. 13, p. 23, nota 2 « suorum » e nel testo « sanctorum »; perg. 20, p. 34. nota 2 catapanis e nel testo a catepanis »; perg. 27, p. 49, nota 2 a nostre » e nel testo « nostrum »; perg. 27, p. 50, nota 3 « dedi», in rasura << damus » e nel testo « dedimus ; nota 5 cum » e nel testo a et; nota 6 « dedi» e nel testo «< dedimus » ; perg. 44, p. 83, nota 2 « prelatis» e nel testo « prelati»; perg. 48, p 92, nota 1 << vero » e nel testo autem »; perg. 70, p. 136, nota 2 a obligatio» e nel testo obligatione D; perg. 83, p. 156, nota 1 «instituo» e nel testo « constituo »; perg. 85, p. 162, nota 1 a ■ possessibus» e nel testo possessionibus »; perg. 87, p. 164, nota 1 « mee » e nel testo nostre ». (2) Vi son per es. registrate parole che troverebbero luogo più opportuno in un paragrafo di linguistica (B per V; benibola per benevola, natibo per nativo, arciepiscopus |