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nico et altre dette di Barlovento, ma li principali sono il viaggio et negotio che si fa dal porto d'Acapulco sito nel mar del Gur in sedici gradi, dalla parte settentrionale, nel regno della Nuova Spagna e lontano dal Messico 240 miglia; del quale porto partono ogn'anno due et tre nave per il predetto Perù cariche di mercantie di Spagna, e di quelle ancora che vengono dalla Cina, e per ritratto ne riportono argento et oro et vini, del quale oggi abonda quel paese; e dal detto porto d'Acapulco conducono il tutto per terra alla detta città di Messico, i mercanti della quale sono i caricatori di dette nave, si come lo sono anche di altre due o tre nave, che ogn'anno mandono all'isole Filippine con reali o verghe d'argento. Le quali navi partono del mese di marzo, e in tre mesi di viaggio arrivono alla città di Manila, se bene al ritorno mettono sei mesi, di dove ne riportono di tutte le sorte merce che sono nella Cina, portate in detta Manila dalli stessi Cinesi con le loro proprie nave che vi vengono ogn'anno in quantità per tutta quella isola detta Luzzon, vicina dalla terra ferma di Cina cinque o sei giorni di navigatione, la quale isola è ultimo termine della conquista de' Castigliani e Spagnoli fatta per via del discoprimento delle Indie occidentali. Nelle quali Indie sono andati e vanno, ma molto meno di presente che di prima l' Holandesi, Inghilesi et Franzesi a negotiare per quelle coste et porti, dove non sono colonie nè residentie di Spagnoli, con li Indiani del paese. Et si sono infino messi, per penetrare nel regno del Perù, a passare lo stretto di Magaglianes, nel qual regno non vi hanno fatto altro che rubare le nave che hanno incontrato di Spagnoli; come già fece Francesco Draches cappitano inghelese, che pigliò quelle nave che venivono dal Perù si come vengono ogn'anno cariche d'argento a Panama et chiamasi la flottiglia di Lima, città de los Reyes. Così Tommas Candis pure cappitano inghelese, il quale prese quella nave che veniva carica di sete et d'oro et altre ricche mercie dall'isole Filippine a Capubo (1) solite a venire ogn'anno. Altri costeggiando dette terre, et arrivando sino alle predette isole Filippine et Cina, hanno fatto altri simili assasinamenti etiam ne' porti stessi, come fece Hens o Hans che si dica, Herche, cappitano holandese, che abbruciò la nave carica per andare al Giappone nell'istesso porto di Macao, a vista de'Portoghesi che quivi stanno. Et altre nave hanno prese in quei mari dell'India spetialmente nello stretto di Malacca detto di Sindapura; et di continuo fanno infiniti danni che troppo lungo sarebbe il raccontarli tutti, et io ne ho sen

(1) Oggi Capoul, al S. E. dell' isola di Lusson, che è paese fertilissimo.

titi la mia parte. Et pur quest'anno è venuto nuova che in quei mari di detta India quattro nave Ingbilese hanno combattuto la nave cappitana che l'anno passato era partita di Lisbona per andare a Goa; la quale per non venir preda del nemico quel cappitano portoghese la haveva abbruciata con tutte le mercantie. Ma per finire queste sciagure dico che in materia di negotii non hanno fatto cosa di momento, eccetto che nelle Malucche come si è detto, nè permanente; havendo sempre il re di Spagna cercato con le sue armate di scacciarli da quei porti et mari di tutte quelle Indie, per quanto li è stato possibile, e con severissime leggi proibito a quei popoli suggetti et non suggetti che non li raccettino, nè meno negotino con essi sotto pena de crimenlese maggiore.

Ma per conclusione di tutto questo discorso si può dire che in virtù di queste due nationi Castigliani et Portughesi che hanno fatto un giro a tutto il mondo, questi navigando verso oriente sono pervenuti sino al Giappone ultimo termine del loro discoprimento; et quelli navicando verso occidente hanno scorso sino alle isole Filippine, vicine alle dette del Giappone, et di Cina, come è detto a poche giornate di navigatione; a tal che per conseguentia hanno facilitato il modo di poter negotiare per tutto il mondo (siccome nel mio viaggio ne posso far fede); in molte parte del quale, come sarebbe nella Cina mi pare che vi si potrebbe andare liberamente da ciascuna natione, sempre che da'Cinesi fusse permesso, senza far torto al re di Spagna, il quale non vi ha dominio nè in mare nè in terra, se non nel modo che si è detto. Et questo sarebbe uno de'più belli et de'più utili negotii che oggi si sappino in tutto il mondo; essendo la Cina un paese ripieno et abondantissimo d'ogni sorte di mercantie et a vilissimi prezzi, et di tutto quello che di bello di buono et di utile si può desiderare in questo mondo, per comodo et regalo del genere umano.

ARCH. STOR. IT., 5.a Serie. XXVIII.

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LABRUZZI FRANCESCO, La monarchia di Savoia dalle origini all'anno Roma, tip. Capitolina D. Batta

1103. - Studio storico-critico.

relli, 1900; 8.o, di pp. 361.

La ricerca iniziata nel secolo XVII sulle origini della Casa attualmente regnante in Italia, non è peranco risolta ai giorni nostri, in cui affaticò la mente di molti scrittori di vaglia, di eruditi e di critici assai più dotti e più acuti dei loro predecessori. Opinioni svariatissime furono emesse, senza curarsi troppo del nesso fra le prove allegate, della ragionevolezza delle ipotesi presentate: la scoperta di un qualunque documento lungo tempo bastò perchè qualche volenteroso vi sragionasse sopra anche dottamente e ne cavasse comunque una teoria. Ond'è che, se per parecchio tempo fu creduto capostipite della Casa di Savoia un Beroldo di Sassonia, nipote di Ottone III imperatore, ricordato e quasi cantato nelle Chroniques de Savoye, gli studi recenti del Cibrario, del Gingins La Sarra e del Carutti dimostrarono la fallacia di quella leggenda, senza però sostituirvi una conclusione che soddisfacesse alla critica severa e potesse essere da tutti senza dubbi accettata. Ognun di loro espose quasi una sua nuova teoria dopo aver combattuto quella dei suoi predecessori, non senza prestare, in quest'opera di demolizione, il fianco all'impeto dei suoi successori già più agguerriti anche dall' opera sua critica.

Il Cibrario, ripigliando l'ipotesi presentata nel '600 dal Della Chiesa, e rinvigorita dal Napione, sostenne quella che fu chiamata l'origine eporediense o berengariana, ritrovando in Ottone Guglielmo figlio del re Adalberto di Berengario II il capostipite dei Sabaudi. Il Gingins La Sarra lo rinvenne invece in Bosone, re di Borgogna, risostenendo l'opinione già emessa dal Dubouchet. E, dopo di lui, la ripresentarono sotto altra forma Benedetto Baudi di Vesme, il Gerbaix de Sonnaz e il Dionisotti. Il Carutti, infine, confortato in questi ultimi tempi dal Gabotto, con molta erudizione credette che

l'origine della dinastia fosse romana o gallo-romana, traendo gli argomenti necessari a sostenere la sua teoria dalle professioni di legge di Umberto I Biancamano, più antico e sicuro stipite della potente e illustre casata.

Il Labruzzi, esaminando ad una ad una queste tre opinioni, ne rileva con molto acume i difetti e pone in evidenza la confusione, l'incertezza, la sconnessione che hanno presieduto al loro concepimento, esponendo con forma cortese e moderata le ragioni che consigliano a rigettarle tutte. La sua critica dottissima e fondata su basi sicure, tranne forse là dove parla del Vesme, penetra fino in fondo al sistema, del quale, pur riconoscendone i pregi, intende di provare l'errore. Forse talvolta può parere anche alquanto timido nella sua confutazione: come quando nega che la legge professata dai membri di una stessa famiglia fosse necessariamente sempre la medesima, richiamandosi perciò all'autorità del Giorgetti e dello Zdekauer. A rinfrancarlo, se n'è d'uopo, potremmo soggiun gere che, prescindendo dal mutamento che verificasi solitamente nella legge seguita dalle donne e dai chierici e di cui la ragione è ben nota, il fatto, da lui posto in rilievo, è da parecchi anni insegnato ai suoi alunni dal prof. A. Del Vecchio di Firenze; il quale distingue nella storia della professione due periodi, prima e dopo l'XI secolo: nel primo, non si può cambiare la professione, nel secondo, invece, si. La qual cosa fu anche da noi osservata in moltissimi documenti che ci permisero di concludere che la professione di legge romana, che dal secolo XI in poi vediamo sempre più estendersi e sovrapporsi, nelle famiglie sicuramente di origine barbarica, all'antica legge salica o longobarda, non è indizio d'ignoranza notarile, o di dimenticanza delle formule antiche, ma attesta semplicemente la sempre minor resistenza delle istituzioni barbariche al risorgere del diritto romano e la graduale fusione dei vari elementi etnici nella nuova nazione che si viene formando lentamente ma continuamente e sicuramente nell'oscurità di quei secoli intermezzi, di quel periodo di transizione.

Chiarita la debolezza dei lavori dettati dai suoi predecessori, il Labruzzi tenta di ricostruire a sua volta il contrastato albero genealogico; e con critica minuta e talvolta convincente, risalendo per quei rami, conclude che più attendibile è l'origine berengariana, ma non già quella sostenuta dal Cibrario, cioè derivante da Ottone Guglielmo figlio del re Adalberto; bensi ritrova il padre di Umberto Biancamano in un altro Adalberto figlio parimente di Berengario II, conte di Aosta e marchese d'Ivrea. Onde viene a provare ancora come sia pura leggenda quella per cui il titolo marchionale

venisse ai Sabaudi dal matrimonio di Oddone con Adelaide di Torino. E inoltre, rispetto a questa Adelaide, a cui gli eruditi, e segnatamente il Carutti e il Cipolla, combattendo Luigi Provana di Collegno, si compiacquero di dare perfino tre mariti, il Labruzzi sostiene e prova che non ne ebbe che un solo, il quale fu appunto Oddone di Savoia, ma fu da tutti quegli scrittori confusa con un'altra Adelaide della medesima famiglia, la quale effettivamente ebbe i due altri mariti che si vorrebbero attribuire a lei.

Questo breve riassunto, queste osservazioni bastano a rilevare l'importanza e la novità del lavoro compiuto dal Labruzzi; al quale certamente non va negata ampia lode per l'acume della sua critica, la vastità delle sue cognizioni, la competenza eccezionale con cui ha esposto una teoria che parrebbe destinata a sostituire le precedenti o per lo meno a essere ritenuta più di esse attendibile. Siena. E. CASANOVA.

NIGRA C., DE JORDANIS G., F. GABOTTO, S. CORDERO DI PAMPARATO, Eporediensa. Pinerolo, tip. Chiantore-Mascarelli, 1900. In 8.o, di pp. VI-520.

GABOTTO FERDINANDO, Le carte dell' archivio vescovile d' Ivrea fino Pinerolo, tip. Chiantore-Mascarelli, 1900. In 8.o,

al 1313, to. I.
di pp. 396.

Le carte, ecc. c. s., to. II. vaticani, relative ad Ivrea.

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Le bolle pontificie dei registri Regesto del « Libro del Comune »

Pinerolo, tip. Chiantore-Mascarelli, 1900. In 8.o, di

VESME B., DURANDO E., TALLONE A., PATRUCCO C., Studi eporediesi. - Pinerolo, tip. Chiantore-Mascarelli, 1900. In 8.o, di pp. v1-325. COLOMBO GIUSEPPE, Documenti dell'archivio comunale di Vercelli relativi ad Ivrea. Pinerolo, tip. Chiantore-Mascarelli, 1901. In 8.o, di pp. 307.

La Biblioteca della Società storica subalpina », di cui i volumi che annunziamo fanno parte, è forse in Italia una delle migliori prove di quanto possano e facciano l'attività e l'energia applicate al progresso della scienza storica. Non sono molti anni, che il Piemonte, quantunque illustrato dall'opera monumentale ed incessante della famosa Deputazione di storia patria per le antiche provincie, pur celebrato in cento lavori speciali, vedeva tutta la sua storia confondersi con quella della Casa di Savoia, ed era si poco

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