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tiochia era forse tutto lo Stato? Che sappiamo noi delle notizie che intanto egli riceveva dalle altre città dell' Impero ?

Ed è poi vero che « l'insuccesso » di Giuliano fosse evidente, clamoroso e universalmente riconosciuto? Questa è una mera presunzione, che io non veggo su quali indizî possa validamente fondarsi; veggo, anzi, indizî del contrario. L'odio intenso e prolungato dei cristiani verso di lui, la gioia che arrecò loro la notizia della sua morte, le invettive che contro di lui morto scagliarono Gregorio Nazianzeno e gli storici ecclesiastici Socrate, Sozomeno ed altri, le stesse tradizioni leggendarie di visioni annunzianti la tragica fine del nemico della Chiesa, il giorno stesso in cui questa avveniva al di là del Tigri, apparse contemporaneamente, in diversi luoghi, a diversi cristiani, più o men noti pel loro zelo religioso, a Basilio, a Didimo, a Giuliano Sabas e ad altri ancora, dimostrano, se io non erro, che ai contemporanei cristiani l'azione di Giuliano non parve innocua, nè vana, nè già compiutamente fallita in quei pochi mesi (1).

In un'altra quistione ancora io non sarei disposto a seguire i concetti svolti dal N. Egli giudica con molta severità la guerra di Giuliano contro la Persia, che fu, secondo lui, « una folle impresa », alla quale Giuliano, « che aveva molto di Alessandro » (p. 428), si accinse per inconsulta brama di gloria militare (2); e il suo biasimo colpisce, in certa guisa, anche gl'imperatori antecedenti che guerreggiarono contro la Persia (3). Qui è lecito osservare: il conflitto

(1) Secondo una delle dette tradizioni leggendarie, accolta da Sozomeno, St. eccl., VI, 2, la visione recante l'annunzio della morte di Giuliano ebbe principio nella forma seguente. La persona che ricevè dal Cielo questo favore vide in sogno un'assemblea di Apostoli e di Profeti appositamente raccolti a congresso, per provvedere al modo di liberare le chiese cristiane dall' ostilità di Giuliano. Agli occhi, dunque, di chi immaginò questo racconto e di coloro che vi prestarono fede (certo moltissimi) doveva trattarsi di un pericolo non lieve.

(2) Pag. 94: « L'idea di rinnovare quelle lotte gloriose (dei Greci <«< contro la Persia) e di sconfiggere la potenza persiana..... aveva per lui << un'irresistibile attrattiva. » p. 95: « Giuliano non vedeva non pen«sava che la Persia. » - p. 102: « Ma che profondo errore era mai quello che trascinava Giuliano nella sua folle impresa! p. 429: « Il primo « suo pensiero, appena toccato il trono, fu di gittarsi in quella folle << guerra di Persia, che non era voluta che dallo spirito di avventura e dal « desiderio di far stupire il mondo con un'impresa colossale ».

»

(3) Pag. 102: « Era questa una specie di suggestione che tutti gl' im<< peratori, buoni e cattivi, si trasmettevano l'un l'altro. E intanto,

<< mentre essi sciupavano le forze in questa inutile impresa, ec ».

tra i due Stati, romano e partico, continuamente rinnovantesi e durato quasi sette secoli, dall'età di Crasso fino all' invasione araba, nel quale l'uno dei due avversarî non riusci mai a debellare definitivamente l'altro, può, a primo tratto, sembrare a noi, tardi nipoti, una lotta sterile, tanto che venga fatto di pensare che entrambi i contendenti avrebbero potuto impiegar meglio le loro forze altrove; ma la stessa durata del conflitto e l'essersi in questo impegnati anche principi di alti concepimenti politici, quali Traiano, Settimio Severo, Alessandro Severo, Valeriano, Aureliano, Caro, Diocleziano, Giustiniano ecc., dovrebbero bastare per far intendere che quello ebbe cause ben gravi e che derivò più dalla forza delle cose che dal volere degli uomini. L'angustia dello spazio mi obbliga a restringermi a questa considerazione generale, nè posso entrare in particolari rispetto a coteste cause. Per quel che si riferisce poi personalmente a Giuliano, noi possediamo (per tacer di vari passi di altri scritti suoi) nell'epistola a Temistio un documento d'importanza rilevantissima, onde apprendiamo quanto poco Giuliano apprezzasse la gloria militare e quanto in basso collocasse nella sua stima Alessandro e, in genere, tutti i guerrieri e i conquistatori. La guerra era per lui, come per Marco Aurelio (il principe suo esemplare), una trista necessità, che subiva a malincuore. Se, dunque, egli respinse le proposte di pace del re persiano, non può aver fatto questo perchè volesse meravigliare il mondo con le prove del suo valore e della sua abilità militare. Egli, guardando al passato, trovava facilmente esempi di mala fede, di violazione dei trattati, nella condotta dei re partici verso l'Impero; trovava, inoltre, esempî di lunghi periodi di tregua, succeduti sempre a guerre, nelle quali la Persia aveva ricevuto da Roma fieri colpi, che l'avevano indebolita e ridotta per più anni all'impotenza. In cima ai pensieri di Giuliano stava la restaurazione del Paganesimo. In ciò tutti consentono, e vi consentirà, credo, anche il N. Giova dunque pensare che Giuliano, fiducioso, per le sue precedenti vittorie galliche, nel buon successo di una campagna contro la Persia, abbia voluto abbassare la potenza di questa, per assicurarsi poi un lungo periodo di tranquillità e per poter darsi intieramente, senza il rischio di esserne distratto, all'altro compito, che tanto più gli premeva. Certo, l'impresa ebbe un esito infelice, e fu fatale per lui. Ma questa un' altra quistione, e riguarda la maniera in cui il piano di guerra fn preparato e condotto. E, del resto, niuno è in grado di determinare quale sarebbe stato l'esito, se a Giuliano non fosse mancato il concorso, su cui faceva sicuro assegnamento, dei suoi generali Procopio e Sebastiano e di Arsace, re dell' Armenia.

Il fin qui detto concerne gli apprezzamenti del N. nei quali io

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discordo da lui. Passo ora ad altro argomento. In uno studio storico, quale è questo, che sta di mezzo tra la monografia scientifica e il libro di volgarizzazione (più vicino però a questo che a quella), le quistioni speciali che sono state soggetto di minuziosa controversia tra gli eruditi possono senza sconvenienza lasciarsi da parte: ma volendovi entrare, conviene conoscerle un po' più a fondo di quel che mostra conoscerle il N. Nel capitolo penultimo, egli si ferma ad esaminare le epistole che si posseggono col nome di Giuliano dirette a Giamblico, e, per quel che riguarda la quistione della loro autenticità, che con valida ragione è stata impugnata (non dal solo Zeller, ma da più altri ancora, e prima e dopo di questo), afferma, p. 459 e seg., ch'esse sono certamente di Giuliano, ma che forse non erano dirette a Giamblico, ma a qualche altro dei capi << del movimento neoplatonico »; egli suppone che non portassero intestazione, e che un copista vi abbia messo, di sua iniziativa, l'indirizzo a Giamblico.

Questa è una supposizione affatto inverosimile e inammissibile. Contro l'autenticità delle dette epistole non sta solo la circostanza che Giamblico deve esser morto, a dir tardi, verso il 336, e che allora Giuliano era un fanciullo di cinque anni appena. Per quanto il N. giudichi che quelle epistole portano l'impronta dello stile di Giuliano, nel loro contenuto ci sono più cose che ben difficilmente possono essere uscite dalla penna di lui (1). Aggiungasi che, tra le epistole portanti nei mss. il nome di Giuliano, oltre le sei a Giamblico, ce ne sono anche altre (p. es., quella a Sarapione, quella a Sosipatro, ecc.), che, per altre ragioni, non paiono autentiche, mentre, d'altra parte, paiono, quasi tutte, opera di un medesimo scrittore, diverso dall'imperatore Giuliano. Assai felice quindi ed accettabile deve stimarsi, e tale è stimata di fatti, la congettura del Cumont, che coteste epistole sospette appartengano al ben noto sofista Giuliano di Cesarea, contemporaneo di Giamblico, e che qualche amanuense poco diligente abbia mutato Ἰουλιανοῦ Καισαρέως in Ἰουλιανοῦ Καίσαρος (2).

(1) P. es., nella epist. 40, scritta da Nicomedia (città nella quale Giuliano, ancor celibe, soggiornò dal 351 al 354), lo scrittore parla del precettore dei propri figli. Ora Giuliano sposo Elena sulla fine del 355 e da lei ebbe solo un figlio, che mori appena nato. Per sormontare questa difficoltà sono state proposte varie spiegazioni, delle quali nessuna è soddisfacente, ed alcune sono anche un po' bizzarre, p. es. quella dello HEYLER, che l'espressione sia metaforica, e istitutore significhi segretario, copista, e i figli siano le epistole, e, in genere, i parti letterarî dello scrittore. (2) FRANZ CUMONT, Sur l'authenticité de quelques lettres de Julien, Gand 1889. ARCH. STOR. IT., 5,a Serie.

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XXVIII.

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Ho rilevato qua e là qualche errore, o inesattezza. Ne citerò alcune, non per volere con ciò menomare il pregio del lavoro, ma perchè l'A. possa correggerle in una nuova edizione.

Scrive il N., p. 270: « Quel principio di tolleranza religiosa « che.... doveva spegnersi con Giuliano, per non risorgere che dopo << quindici secoli di completo oscuramento ». E il medesimo concetto è espresso di nuovo alla p. 281. Ciò non è conforme al vero. Il principio della tolleranza religiosa non si spense con Giuliano, bensi con Valentiniano I, imperocchè anche questo imperatore (364375) vi si attenne. In una sua legge del 371 (Cod. Theod., IX, 16, 9), nella quale si permette l'aruspicina, purchè non sia esercitata nocenter, egli accenna appunto alla sua tolleranza e scrive: « Testes

sunt leges a me in exordio imperii mei datae, quibus unicuique, << quod animo imbibisset, colendi libera facultas data est». E Ammiano Marcellino, nell'epilogo che fa del regno di questo principe, dice, XXX, 9, 5: Hoc moderamine principatus inclaruit, quod << inter religionum diversitates medius stetit, nec quemquam inquie<tavit, neque ut hoc coleretur imperavit, aut illud.... sed inteme<< ratas reliquit has partes, ut repperit ». Con Graziano tornò a prevalere l'intolleranza, e questa disgraziatamente imperversò in Europa fino alla rivoluzione francese.

P. 161: « Fu con le sue forme (del Neoplatonismo) che la filo« sofia greca, esigliata da Atene per un decreto di Giustiniano, passò << nell' Oriente, dove più tardi fu raccolta e salvata dagli Arabi ». Il senso resultante dall'insieme di questo discorso è tale da indurre in errore chi legge. La verità, esposta in forma più precisa e più chiara, è questa. I professori di filosofia della Scuola di Atene, soppressa da Giustiniano nel 529, Damascio, Isidoro, Simplicio, Olimpiodoro ed altri loro colleghi, cacciati dalla cattedra e dalla patria, si rifugiarono in Persia, presso il re Kosroe. Ma da Agathia, lib. II, c. 31, sappiamo che colà si trovarono male, e poco dopo rimpatriarono, consenziente, pare, Giustiniano. Questa loro effimera migrazione in Oriente non sta, quindi, in alcun rapporto col sorgere e col fiorire della filosofia araba, che incominciò tre secoli più tardi. Gli Arabi appresero la filosofia greca nelle provincie dell' Impero da loro conquistate, nella Siria, nell'Egitto ec., dove erano in copia le opere dei filosofi greci. Avvertasi, inoltre, che il fondo della filosofia araba è quasi intieramente aristotelico, non neo platonico; e, se in quella possono scorgersi anche alcuni elementi di Neo-platonismo, questi vi s'infiltrarono, in buona parte, pel tramite degli scritti dei commentatori alessandrini di Aristotele.

Altre osservazioni di minor conto avrei da fare: ma potrebbero

parere quel che i Francesi chiamano chicanes, e preferisco astenermene. Piuttosto noterò, terminando, che qualche volta il N. esce in proposizioni poco ponderate, che, forse, egli stesso, ripensandoci sopra, non confermerebbe. P. es., egli scrive, p. 220: « Il Cristia<<nesimo, senza lo scellerato e stolto capriccio di Nerone, si sarebbe, < forse, spento nell'oscurità! ».

Dire questo vale quanto, da un lato, misconoscere sostanzialmente la natura e il valore delle cause che produssero uno dei fatti più ragguardevoli della storia, cioè la trasformazione religiosa della società greco-romana; dall' altro, esagerare a dismisura e stranamente le conseguenze della persecuzione di Nerone, la quale, sebbene sia un fatto non trascurabile, non merita davvero cet excès d'honneur. Firenze. ACHILLE COEN.

ALFRED VON HALBAN, Das römische Recht in den germanischen Volksstaaten. Ein Beitrag zur deutschen Rechtsgeschichte. - I Th. pp. xxIII312. Breslau, M. u. M. Marcus, 1899; II Th. pp. vi-363, 1901.

La storia del diritto tedesco deve già al professore A. v. Halban dell' Università di Czernowitz un ottimo libro sull'origine della proprietà immobiliare germanica; ora, con questo lavoro meritamente accolto nelle Untersuchungen zur deutschen Staats-und Rechtsgeschichte del prof. Gierke, l'A. affronta con seria preparazione un tema più vasto, ma che pure si collega al precedente. L'argomento delle lunghe indagini è cosi espresso dall'A. stesso: « Movendo << dalla illustrazione di tutte le circostanze storiche, mercè le quali << la cultura romana esercitò l'azione sua sul germanesimo, il libro << si propone di delineare, in ogni Stato tedesco, l'urto, l'incontro dei << due elementi, il romano ed il germanico, con lo scopo di ricondurre, << fin dove sia possibile, ciascun istituto giuridico all'origine sua << propria >>.

Il primo volume s' inizia con una parte storico-giuridica generale (Historische Grundlagen), dedicata allo studio delle relazioni fra l'elemento romano ed il germanico, per ciò che concerne la vita politica, economica, giuridica, religiosa del vecchio mondo morente. Il quadro è tratteggiato con molta dottrina e con garbo. Certo è che noi latini possiamo avere ancora qualche pregiudizio sulla missione dei popoli tedeschi nella cultura europea, ma questo non ha nulla a che fare col tema principale. Il resto del volume primo si occupa dei singoli regni germanici, cioè dei Vandali, di Odoacre, dei Visigoti, dei Borgognoni.

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