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Gun.

Sif.

Gun.

Sif.

sull'onore, che tutto e' seppe vincere
per sua virtude, e non colle girandole!
Io dunque vengo anch' io.

Presto, spicciamoci.

SCENA SECONDA

Siffredo entra coi suoi Dodici compagni.

O re Gundéro di Borgogna, io porgo
a te il saluto; e forse meravigli

che a te venga Siffredo. Ei viene, e cerca,
per il tuo regno, aver teco battaglia.

Per quel ch'egli ha nessun, fra noi, contende.
Ma per quel che gli manca. Ho regno anch'io
al tuo pari in grandezza, e, se mi vinci,
ne sei signore. Che vuoi più? Sull'elsa
non metti già la mano? Si racconta,

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di tutti i cavalieri i più valenti

qui adunarsi, si forti che la folgore
anche a Tore ardirieno di contendere,
se in un bosco di querce lo incontrassero;
e ancor, così superbi che non degnano
raccôr la preda. O non è vero? Dubiti
del mio pegno? e che nulla io possa darti,
finchè vive mio padre?

Sigismondo,

il re, del trono avito già discende
com'io ritorni, ed il momento affretta.
col più vivo desio; però che gli anni
gli fan grave parer anche lo scettro.
Ad ogni prode che, in tua corte, omaggio
a te fa, tre de' miei vo' porre a fronte:
per ogni tuo castello sia compenso

una città: ed un tratto, anche il più piccolo,
del Reno, il paghi il Reno tutto quanto.
Fuori la spada!

Dan.

cosi?

A re fu mai chi parli

Sif.

Dan.

Sif.

Ag.

Sif.

Gun.

Ad un re? No, parla il cavaliero al cavaliero. Chi possiede al mondo, se provarci non sa d'averne il dritto? Chi soffoca di plebe il mormorio, se il più forte de' vivi e' non calpesta sotto a' piè? Non sei tu forse il più forte? M'inganno? Dillo. Di chi temi? Ed io,

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anzi che te, lui chiamerò alla punta

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di questo ferro. Non sai dirne il nome,
e non muovi a difesa? Su, mi struggo
di battermi coll'uom che addoppi o tolga
il mio regno. Cosi forse non senti

tu pur? Nol credo, solo che nel volto
guardi ai ministri: no, questi superbi
seguirti non vorrebbero.

Cotanto

della pugna desio ti avvampa il petto,
da che lo copre lo squamoso usbergo
del drago? Al par di te, nessun la Morte
ingannò qui: son schiuse a lei le porte.
E le mie! Ti son grato, arbore antica.
del tiglio che, allor ch'io dentro del sangue
mi bagnava del drago, una tua fronda.
cader lasciasti: e sono grato al vento
che la scoteva. Pronta ho la risposta.
a quel beffardo che viltà nasconder
schernendo.

Ser Siffredo, il nome mio
È Aghene di Troja, e qui il fratello.

(Volchero intanto tocca il violino)
O 'Aghene di Troja, a te 'l saluto!
Pur, se quello ch'io dissi t'è molesto,
parla e, il figlio del principe in disparte
ponendo, a te ben volentieri io m'offro
come fossi Gundéro.

Una parola

tu non dirai prima che il re favelli.

Sif.

Gun.

Sif.

Gun.

Sif.

Che se tu temi che, alla pelle scabra,
la tua lama si spezzi, nella corte

scendiamo: e quella selce, a tutti e due
di grave peso, scaglisi e la forza
di tutti e due s'assaggi.

Benvenuto

sii tu fra noi, signor di Nederlanda.
Quello che più t'aggrada, e tu lo prendi;
ma prima bevi.

Grazioso e dolce

parli cosi? Ten prego, al vecchio padre
mi rimanda: egli sol dalla natura.

di ammonirmi ebbe il dritto.

Ma pur lasciami, come i teneri bimbi che non smettono le bizze a un tratto, lasciami scommettere chi vinca! Dopo, si può fare il brindisi. Sia pur, messer Siffredo.

(A Danguardo)

Quanto a te

nel braccio che non hai t'ho dato il pizzico, e non fa male!

U.

Cr.

(A tutti)

Com'entrai qua dentro

orror mi colse mai sentito; un brivido,
quasi fosse nel verno: e della madre
mi rammentai che, pur non usa al pianto,
se le case lasciavo, questa volta.

empia gli occhi di lagrime.

Sentivo nella mente un tramestio,

più non volevo dal cavallo scendere........

or non mi fate risalir, per Dio!

(Tutti escono)

SCENA TERZA

Uda e Crimilde.

Il falcone, è un marito.

Madre mia,

cessa, se meglio il sogno non rischiari.

U.

Cr.

U.

Cr.

U.

Udii già che l'amor breve il contento

e då lungo il travaglio; e in te lo scorgo,
mamma. All'amor non cederò giammai,
giammai, giammai.

Fanciulla, e il puoi tu dire?

Al fine, anche l'amore,

so ben, porta il dolore;

innanzi all'altro l'un deve morire;

e quanto pesi in me tu lo vedrai.

Ma quelle amare lagrime ch'io piango

le comprò un bacio, il primo che il tuo padre.
mi diede un giorno. E prima che la morte
lo rapisse, pensava alla mia sorte,

pensava a consolarmi.

Chè s'io posso vantarmi

lieta madre di prodi, e al sen ti serro,

è l'opera di amore.

I canti de' poeti non ti turbino;

lunga la gioia e breve fu il dolore.

Meglio che il perder, non aver giammai
Qual cosa al mondo perder non dovrai?
fino a te stessa? o resti quel che sei?
Sorridi ai detti miei,

ma sono stata un giorno pari a te,
e tu diventi un giorno pari a me.
Che vuoi mai tener saldo, se non basti
a serbarti da te che non ti guasti?
Or prendi quello che ti dà la sorte,
quello che meglio alletti le tue voglie,
benchè lo soffi in polvere la morte.
Va in polvere la mano che lo coglie!
(Va alla finestra, guarda, poi si interrompe)
Per quanto il cuor mi dice, giurerei....
E t'arresti? Sei rossa come fiamma!
e che cosa ti turba?

Cr.

(Si ritira)

Ma che usanza

corre adesso tra noi che, in questa corte,

giunga un ospite ignoto, e le novelle
non se ne dieno? Forse la superba
rocca di Vorme è pari alla capanna
umile, dove ognun, la notte e 'l giorno,
può cercare ricovro?

U.

tanto, e perchè?

Cr.

U.

Cr.

U.

Cr.

U.

Cr.

U.

Cr.

U.

Furïosa

Dïanzi, alla finestra,

gettar volli lo sguardo agli orsacchiotti,
come, l'uno sull'altro rotolandosi,

si azzuffano in un modo si piacevole:
io veggo un cavaliere.

E il cavaliere

non lascia che il tuo giuro arrivi al termine. (S'accosta ella pure alla finestra)

Ora capisco: chi lo sta a guardare,

pensa e ripensa prima di giurare.

Del mio fratello che m'importan gli ospiti,
quand' io possa sfuggirli?

Questa volta

godo al veder che d'ira sol s'accende,
solo d'ira, la guancia; il giovanetto
eroe, che di quegli orsi ti contende

la vista, da gran tempo ha moglie e un figlio.
Tu lo conosci?

Si.

Che nome porta?

Il nome non lo so, ma ben conosco
ora te stessa: sei pallida e sinorta.
Infatti, preso il falco, te lo accerto,
più temere dall'aquila non dei.
Egli tutti disfida.

A te dei miei

sogni, l'ultimo, o madre, t'ho scoperto.
No; di te non mi beffo; chè di Dio
si vede il dito anche nel sogno, e quando
al destarci si trema,
fu visto il dito al certo. Or poi s'intenda

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