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Svolgerò punto per punto le sue contestazioni, senza fronzoli e senza espedienti.

Riassumo. Frugando nei documenti, mi pareva di aver trovato indizi sicuri della vitalità delle reliquie del popolo ostrogoto, in tutta Italia: nell'esercito, nel clero, nelle magistrature, anche dopo la vittoria definitiva de' Bizantini. Dunque, io pensavo, non c'è da stupire se della loro legge si parla in qualche carta. Non mi sembrava troppo ardito il riferire ai Goti nostrani, e non agli Spagnuoli, gli scarsi accenni a questa benedetta lex Gothorum, che ci tormenta tutti.

Non c'è bisogno di dire a Lei, che i Goti foederati dell' impero ebbero da Giustiniano, ortodosso fino allo scrupolo, un trattamento di favore, di fronte agli altri eretici malmenati dalle sue leggi (C. I. I, 3, 12 § 17). Di qui la professione degli ecclesiastici gotici, che con le parole legis Gothorum, originariamente vollero indicare la loro speciale condizione, in confronto degli altri eterodossi, anche sotto Giustiniano, dopo cioè la caduta del loro regno nazionale (MARINI, Papiri dipl. N. 117; a. 541). Ancora nel 551 - noti bene questi poveri ecclesiastici supponevano la possibilità della nomina, in Ravenna, di un vescovo ariano, così lontani essi erano dal sospettare imminente la ruina della loro Chiesa (MARINI, N. 119 p. 182 a. 551). Orbene, ciò che si riferiva ai culto, intimamente connesso a tradizioni familiari e politiche (in Francia Romano voleva dire cattolico!) non è impossibile che poscia servisse a designare la nazionalità dei vinti superstiti, e con questa l'uso di un diritto che li distinguesse dai Romani e dai Longobardi. La tesi, non isvolta così, ma certo adombrata dal Brunner, fu accolta anche dal Mommsen: solo, testé, il Neumeyer non negava che Stavila fosse Ostrogoto, ma ammetteva che la legge che questi professava si riferisse all'arianesimo, ancora vivo nel secolo ottavo. La qual cosa a me pare strana, perchè, anche se l'arianesimo, alimentato dall'elemento longobardo, tirò avanti per un pezzo, data però l'ortodossia specialmente di Liutprando, che s'intitolava re della gente longobarda deo dilectae et catholicae' e che non voleva si sgarrasse in materia di fede, sarebbe curioso che in un documento riguardante un monastero regale si spiattellasse da un Goto una pro

fessione solenne di eresia! Anso di Pavia che, a' tempi di Liutprando, eresse una Chiesa a Maria Vergine, non era certo ariano: e da quella chiesa egli voleva che penetrassero nel cielo vola God(orum) (Troya C. D. L. III N. 486 p. 543). Com' Ella vede, questo Goto non era solo, ma pare avesse parecchi connazionali vicino a lui.

Anche se costoro avessero dichiarato di vivere secondo la legge gotica, s'intende che questa doveva riferirsi a qualcosa che non era precisamente l'arianesimo. Il male si è, Ella penserà, che non hanno professato nulla! Ed in questo non dico mica ch' Ella abbia torto..

Consideri tutto ciò come una prefazioncella, e veniamo ora a' Suoi arguti capitoletti, a' quali corrisponderanno i miei.

Ella incomincia la sua critica rivolgendosi al Brunner, il quale nega che, giusta il c. 367 di Rotari, un Visigoto potesse vivere, nel regno longobardo, secondo la propria legge, ed aggiunge che questa tesi è campata in aria e forse non è nemmeno approvata da me.

Lealmente riconosco che l'interpretazione più sicura del c. 367 sta contro il Brunner, e che io non la penso, in questo, troppo diversamente da Lei. Sta il fatto, però, che per lo straniero l'uso della legge propria è un'eccezione (nisi si aliam legem ad pietatem nostram meruerint) e che quella scuola, che ora il nostro Besta fa pencolare un poco verso la mia Mantova, interpretava la legge nel senso meno liberale (Exp. ad c. 367 Lex eos qui ex alieno regno huc habitare devenerint Longobardos fieri precipit....). Il caso di Stavila, in ogni modo, sarebbe stato un'eccezione alla regola. Confesso tuttavia che io, caro Maestro, non me la prendo con la Scienza d'Oltralpe: anzi prendo ciò ch'essa mi dà di buono, o che credo buono; insomma, giudico liberissimamente e tiro via.

Poi Ella mi chiede: ma cosa intendi che voglia dire quel civis brixianus? Rispondo: uno che non è... guargango. Da che la parola civis è stata coniata, essa ha indicato qualcosa di così preciso, di così determinato che si sottrae ad ogni discussione, per ciò che riguarda un punto fondamentale del suo significato. Stavila apparteneva al territorio bresciano, Stavila aveva per

patria Brescia. Ecco tutto. E l'assicuro che la mia povertà di risorse e di espedienti qui è assoluta, estrema. Se non che Ella mi fa notare una cosa nuova. Nientemeno mi addita in un documento beneventano del 743 (TROYA IV N. 557 p. 114) un Saraceno, cristianissimo però tranne che nel nome, guargango, proprietario di terre, e... anche sculdascio.

Ora Saraceno era più che civis: era sculdascio, un pubblico ufficiale! Stavila anche guargango si contentava di essere solo civis, una volta che si era messo sotto lo scudo del Re. Metto pegno ch'io riesco, senza artifizi, a provarLe che la guargancità di Saraceno deriva da un errore d'interpretazione Sua, giustificabile fin che si vuole. Il nostro Saraceno ottiene nel 743 che il duca Gisulfo II approvi e confermi la fondazione di un Monastero, nel territorio d'Alife, e che questo convento sia sub iure B. Benedicli, sottratto quindi alla giurisdizione normale del vescovo della diocesi, così odiata dai frati e da' fondatori de' chiostri. Chi ci dice questo non è solo il documento citato, ma (guardi quale fortuna!) abbiamo anche nell'altra carta del 745 (TROYA IV N. 582 p. 179-80) proprio un'interpretazione ducale del primo documento: « monasterium - quod Saracinus in ipso edificaverat locum, et per nostrum firmitatis preceptum condonavit in monasterio S. Benedicti ad ipsum locum ordinandum ». Il documento del 743 è dunque un praeceptum firmitatis del sovrano: di quei praecepta che si collegano all'età romana e che Giustiniano nella Nov. 37 ripete per la Chiesa d'Africa: « a quacumque persona pro suae salute animae oblatum est vel fuerit quocumque modo legitimo apud venerabiles ecclesias manere firme etc. ». Quasi direi che più della metà delle nostre vecchie carte sono conferme di privilegi sovrani a Chiese ed a monasteri. Qui la diplomatica longobarda non è diversa da quella delle regioni romane. Vegga per es. nei Monumenta del CAPASSO II, 2 N. 1, 2, 3, 4, 5, 16, 17, 19, 20 ecc. e troverà le stesse frasi della carta beneventana (hoc precepto firmamus eidem ecc.) e le solite conferme degli acquisti fatti o da farsi dagli enti ecclesiastici e monastici (illud firmum et stabilem habealis) ecc. ecc.

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E troverà anche le esenzioni dalla tutela vescovile ed altri privilegi, ch' Ella ha tante volte studiato ne' Suoi lavori, ini

ziatori brillanti della nostra scuola italiana, trionfante fino all'ultimo e geniale Regolamento delle nostre Facoltà.

Per capire come mai Ella abbia intravvisto in Saraceno un guargango, ho dovuto saltare a pag. 170 della Sua Rivista. Saraceno dichiara di fondare quel tal monastero pro eo quod de suo semine filium minime potuit procreare. Ella ha creduto che siccome Saraceno, non avendo figli, si era rivolto al duca per avere la conferma della sua pia liberalità, questo sculdascio fosse uno straniero, bisognevole dell'absolulio palatii. Ma non è così. La mancanza di prole non è, direi, che il motivo etico e giuridico della donazione; ed è anche questa una cosa delle più comuni. Nel 764, un colono di Farfa dona il fatto suo al monastero quia filios aut filias de peccatis meis habere minime potui (Reg. Jarf. II p. 60). Teupaldo nell'a. 839 fa lo stesso a favore de' poveri quia sine filio vel filia legitimo esse invenior (Cod. dipl. Lang. N. 135); lo stesso è ripetuto nel Cod. Cav. II N. 371 ecc. Altri esempi addussi nelle mie Alienazioni p. 249 che è inutile ripetere. Saraceno istituiva un nuovo monastero, l'autorizzazione o conferma ducale era opportuna: ma la condizione di straniero io non la trovo assolutamente in lui, e molti con me stenteranno a vederla. Ella (siamo a pag. 170) ha potuto toccare con mano che, quando c'è un guargango, il notaio sta all'erta, e più di lui l'ente beneficato che sa quali artigli terribili abbia la corte regia o ducale. L'Anonimo Salernitano ne conosceva molte di queste storielle.

Per concludere: uno straniero ed anche gastaldo c'è stato nel mezzodi ed è quel tale capo di Bulgari; ma si tratta d'altra cosa. È uno straniero naturalizzato longobardo e non fa al caso nostro. Saraceno nacque e mori beneventano, anche se non ebbe la consolazione di avere figliuoli. Ergo è sempre da provare che un guargango possa essere non solo civis, ma anche sculdascio.

<< Il Tamassia (Ella scrive) per suo conto osserva che Stavila « era proprietario di beni, pervenutigli iure successionis dalla << madre Benedetta ed esclama: cittadino e proprietario: niente « dunque straniero. Ma di grazia, Rotari stesso aveva ammesso < nell'Editto che anche uno straniero potesse avere cose proprie, <di cui i figli legittimi sarebbero stati eredi..... Creda pure

<< l'egregio Tamassia che la qualità di proprietario non fa ostacolo: anche un visigoto poteva esserlo». E mi indica i documenti N. 409, 422, 557 ecc. del TROYA.

Davvero che qui sono rimasto molto male per la stima esigua che Ella ha dello scolare, il quale avrebbe ignorato proprio quel capitolo 367, cui esso ricorre ad ogni istante, e che è la base di tutto; ignorati tutti i documenti che provano che gli stranieri possono essere proprietari, ignorati tutti, dico, meno uno tardo e mingherlino del 992!

Mi chiedo: ma se avessi avuto questa lacuna cerebrale così grave, come avrei potuto discuter tanto... dei beni dello straniero nel regno longobardo? Non è come non saperne un'acca di storia giuridica? Guardi a pag. 21 nota 2: anch'io cito i documenti ch` Ella mi addita; la citazione è però sommaria. Rimando ad una nota del PERTILE (St. III' p. 165 nota 13 TROYA N. 409, 422, 557, 582). EccoLe i documenti a me notissimi e non pel solo tramite del Pertile. Me lo può credere.

Qui entriamo in un altro campo. Io dissi che Stavila, cui il padre concede il permesso della vendita dei beni materni, viveva secondo il diritto giustinianeo. Cosa spiegabilissima, trattandosi di un Goto da Brescia. E avvertii questo, perchè se Stavila fosse vissuto secondo la propria legge (visigota) come straniero, non avrebbe avuto tanta libertà di disposizione, per il fatto che la legge visigota, improntata al dirillo leodosiano, non conosceva tanta larghezza a favore del figlio: cioè mai un figlio non avrebbe potuto alienare come un sui iuris, con l'aggiunta del consenso paterno.

Con buona pace mia, Ella osserva, nemmeno questo corrisponde alla verità storica! Le disgrazie quando cominciano non finiscono così presto. Lascio stare l'esame delle costituzioni e vengo al quia. Ella vorrebbe che l'alienazione del figlio col solito consenso paterno non fosse una novità giustinianea, perchè fu Costantino il primo che considerò i bona materna, come un patrimonio a sè, e stabili che dovessero passare in eredità ai figli e questi acquistarli in proprio (C. Th. VIII, 18, 1 = C. I. VI, 60, 1), onde (continuo a riferire le Sue parole) s'intende che essi avrebbero potuto disporne, appunto perchè ne avevano la proprietà, ma

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