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INTRODUZIONE

La chiesa di Torino sino dalla sua primitiva origine fu suffraganea dell' arcivescovato di Milano, e vi rimase sino all'anno 1513, in cui fu innalzata anch'essa all' onore di chiesa arcivescovile metropolitana, per bolla del giorno 3 dicembre, e le tre sole suffraganee le furono allora assegnate di Fossano, d'Ivrea, e di Mondovì; colle quali continuò a formare la provincia ecclesiastica piemontese, finchè nel 1805 gli stravolgimenti politici dell' Italia rovesciarono anche le diocesane e metropolitiche giurisdizioni del Piemonte. In quell'anno infatti, come ho narrato nella Prefazione generale alle chiese degli Stati Sardi (1), nove diocesi venivano soppresse, le quali appartenevano alla giurisdizione metropolitica di Milano, tranne la sola di Fossano, ch' era di Torino; e le altre sette di Vercelli, d'Ivrea, di Acqui, di Asti, di Mondovì, di Casale e di Saluzzo, furono destinate a formare la provincia metropolitana di Torino; tolte tutte a Milano, tranne Ivrea e Mondovì, che appartenevano sino dal 1517 a Torino. Ma finalmente, ricomposte le cose politiche dell' Italia, anche la metropolitana giurisdizione dell' arcivescovato torinese pigliò nuova forma; cosicchè nel 1817, per la bolla, di cui ho portato il testo nella

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suindicata Prefazione, le furono stabilmente assegnate a suffraganee Asti, Acqui, Alba, Ivrea, Mondovì, Saluzzo, Fossano, Pinerolo, Susa e Cuneo, le quali continuano ad esserlo sino al giorno d'oggi. Esse per la maggior parte, di mano in mano, che venivano erette in chiese vescovili, erano state smembrate dall'ampiezza primitiva della diocesi di Torino. Le ho numerate con quest'ordine, perchè cosi ne procede la loro serie, secondo il tempo della fondazione di ciascheduna. E con questo ordine appunto ne parlerò, dopo la loro metropolitana, nel progresso di questa storia.

TORINO

Eruditamer

ruditamente scrisse di TORINO il Cibrario (1), il quale ce ne mostra la derivazione dai popoli taurini sino dai rimotissimi tempi delle prime trasmigrazioni dei popoli dell' Asia in Italia. Cotesti taurini furono quei tirreni, che vennero ad abitare appiè delle Alpi; ed ebbero questo nome, come se dirli si volesse montani, perchè nella maggior parte degl' idiomi dell'Asia taur o tor significa monte. Così almeno suppone il Cibrario, Ma non saprei trovare poi veruna convenienza tra questa sua etimologia ed il toro (taurus), ch'è lo stemma della città di Torino. Gli antichi geografi la dissero Augusta Taurinorum. Giace essa presso al confluente del Po e del Dora; colà, cioè, dove questo si scarica in quello.

I taurini divennero amici e fedeli di Roma, nel 224 prima di Cristo; dopo di esserne stati, per due buoni secoli, avversarii. La loro città fu espugnata da Annibale tre anni dopo la loro alleanza coi romani. Allora Torino diventò colonia romana, e fu chiamata Giulia da Cesare. Di Torino romana non rimase altro monumento, che quel palazzo, ridotto a prigione e chiamato le Torri, ch'era una volta porta della città (2). Ma i marmi avanzati dalle ingiurie del tempo ce ne commemorano le antiche glorie. Torino era aggregata alla tribù Stellatina, ch' era la XXII del popolo romano. Giove n'era detto il custode

JVPITER CVSTOS AVGVSTAE TAVRINORVM.

Vi avevano inoltrė altari e riti Venere Ericina, detta Madre dei Cesari, Pallade Attica, Mercurio ed Iside. E sulle Alpi Taurine, chiamate poi

(1) Luigi Cibrario, Storia di Torino, pubblicata nell' anno 1845, tom. 2.

Vol. XIV.

(2) Ved. il Cibrario, pag. 48 del tom. 1.

2

Cozie e Graje, erano invocati, come numi tutelari, Apollo sotto il nome di Beleno, Ercole e le dee matrone, appellate Monginevra. Erano a Torino il teatro, il circo, archi di trionfo, trofei militari. Nella decadenza dell' impero di Roma, andò soggetta anche Torino a tutte le vicende, di cui furono vittime le altre città dell' Italia per le invasioni dei goti, dei vandali, dei longobardi e di tutti gli altri barbari, che di mano in mano se ne usurparono il dominio. Sotto i longobardi, Torino fu governata dai duchi; sotto Carlomagno ed in seguito, ebbe i suoi conti; più tardi, i marchesi. Nel duodecimo secolo, si eresse, benchè per breve tempo, in comune, ed ebbe allora i consoli, e poscia il podestà: pochi anni dopo diventò soggetta ai conti di Savoja: fu in guerra con questi, per ricuperare la propria indipendenza. Nel secolo decimoterzo, sofferse varie vicende e fu di varii padroni: di Tommaso II di Savoja, di Carlo d'Angiò re di Sicilia, di Guglielmo VII marchese di Monferrato, e finalmente dei principi di Savoja, divenuti duchi, sotto i quali continua ad essere sino al presente, malgrado le politiche vicende, che in tanta serie di secoli ne contrastarono ad essi il dominio.

Chi primo predicasse il Vangelo ai torinesi, è affatto ignoto: l'opinione di que' che lo dissero predicato dall' apostolo san Barnaba cade da sè, per le molte ragioni da me addotte quando parlai della chiesa di Milano; cosicchè il primo a recarne qui la luce potrebb'essere stato il vescovo di Milano sant' Anatalone, nel primo secolo, o forse con più probabilità san Calimero, successore di quello in sulla metà del secolo secondo. Nel secolo seguente bensi, san Dalmazzo, nato in Magonza di padre italiano e consolare, dopo di avere predicato la fede cristiana ai popoli della Provenza, la predicò anche agli auriatesi, che abitavano le rive del Gesso e del Vermenagna, ai Torenesi e ad altri popoli circostanti. Ma nel 254 cercato a morte dai sacerdoti auriatesi, mentre tornava per confermare nella legge di Cristo i già convertiti, raggiunto presso al ponte del Vermenagna, fu ferito di spada mortalmente nel capo. Continuò qualche momento il cammino, varcò l'alveo del Gesso e sulla riva cadde e morì. In sul declinare dello stesso secolo, circa l'anno 285, una intiera legione di soldati, mandati da Tebe ai servizi di Massimiano, fu trucidata per ordine di questo imperatore, perciocchè adoratrice di Gesù Cristo. Spintala infatti nelle gole del Vallese, sotto colore di marciare contro i bagaudi, la fece pigliare in mezzo dalle pagane coorti e passare

a fil di spada. Là perì con la sua preclara milizia il glorioso capitano san Maurizio. Pochi scamparono, i quali dispersi qua e là per la Liguria e per la Lombardia si diedero al pietoso uffizio di guadagnare anime a Dio, e dopo di essersi formati non pochi proseliti, vi trovarono anche essi il martirio. Tra questi pochi, furono, secondo l'antichissima tradizione della chiesa torinese, i santi Solutore, Avventore ed Ottavio, che venuti a Torino vi furono ben presto scoperti dai Cesariani. Avventore ed Ottavio furono qui trucidati: vuolsi, che Solutore fuggisse ad Ivrea, e che là, dopo qualche giorno, fosse riconosciuto e decapitato, nel mentre, che salito sopra di un sasso, faceva ad alta voce professione della sua fede dinanzi al popolo circostante. Santa Giuliana, gentildonna cristiana, condusse da Ivrea a Torino il corpo di san Solutore, e gli diè sepoltura insieme con quelli de' suoi compagni. Probabilmente il luogo, ov' essi giacevano, fu in Torino l'oratorio, ove i primi cristiani raccoglievansi ai santi uffizi ed alla preghiera; e questo luogo sembra, che fosse colà, dove fu poscia eretta in loro onore la chiesa di san Solutore, alla quale, nel secolo XI, fu aggiunto dal vescovo Gezone un celebre monastero di benedettini.

Pensano gli scrittori torinesi (1), che dopo la libertà concessa alla Chiesa dall'imperatore Costantino, il vescovo di Vercelli sant' Eusebio avesse cura del territorio di Torino, d'Ivrea, di Novara, ed esercitasse il suo pastorale ministero sopra la Val d'Aosta e le colline del Monferrato sino a Testona. Pretendono anzi, che nei primi tempi del suo episcopato siasi egli adoperato a cancellare dalla città di Torino gli avanzi, che ancor rimanessero delle pagane superstizioni, o le eresie che vi si fossero introdotte ; perciocchè di lui predicava san Massimo, che i torinesi gli andavano debitori dello splendore dell' ordine sacerdotale, della ortodossa loro credenza, della purità dei costumi. Aggiungono per altro, che quando per la persecuzione mossagli dagli ariani sant' Eusebio fu relegato a Scitopoli di Palestina, pare che Torino già avesse il proprio » vescovo, perchè nella lettera indirizzata nel 356 da quel luogo di esilio » ai suoi diocesani, in cui tutte ne distingue le genti, ancorchè piccole, » come sarebbero gl' industriesi, gli agamini, ed i testonesi, non ricorda i torinesi, ben altrimenti famosi.» Ed avevalo certamente: non già

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(1) Ved. il Cibrario, pag. 58 del tom. I.

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