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quali, nove sono quelle che finora rimasero inedite. Quelle poi che furono pubblicate, salvo cinque, non furono tratte dal codice, ma da una copia che è nella biblioteca Barberiniana e viene da Giuseppe Maria Suarez, che fu poi vescovo di Vaison, il quale vide e trascrisse il codice, quando dall'archivio episcopale di Tivoli passò nel pontificio di Castel s. Angelo. Questa copia però non è intera, nè interi vi sono i documenti trascritti. Dopo il Suarez nessun nuovo documento ne emerse fino a Gaetano Marini, il quale, essendo custode dell'archivio, ne pubblicò altri cinque inediti (Pap. p. 229 e 231.255.316.317). Per cortesia di Marino Marini, nipote al sommo Gaetano e suo successore nella custodia dell'archivio, nel 1826 lo vide Carlo Fea, e ne trascrisse un brano della bolla di Benedetto VII, che erroneamente credette ancora inedita (Miscellanea antiq. idraul. ec. Considerazioni ec. Roma, Bourliè 1827, p. 49). Ma, intento egli ad una speciale ricerca, non se ne giovò che quanto era sufficiente al suo scopo, e la menzione ch'egli ne fece, confusa fra molte altre notizie, restò inosservata. Dopo di lui, non so che sia stato veduto da altri, e fu così ignorato, che non si sapeva ove fosse, ed anzi temevasi che gli avvenimenti politici del principio del secolo l'avessero fatto smarrire. A ricercarlo ne fu guida un antico catalogo dell'archivio, comunicatoci dal ch. sig. Leone Nardoni, ma non fu senza noia, perchè in archivio il suo luogo fu trovato vuoto, e fu solo dopo qualche tempo che il ch. P. D. Gregorio Palmieri cassinese ebbe la sorte di ritrovarlo.

Il codice è segnato colla antica numerazione Armar. XIII. caps. V. n. 1; ed è in membrana del formato di un volume in 4o, dell'altezza di trenta centimetri, e della larghezza di venti. Non ha alcun titolo, ma è chiaro che è il Regestum dei documenti più antichi e più importanti della sede di Tivoli, che uno de' suoi vescovi riunì in un solo corpo, facendoli trascrivere da originali, dei quali alcuni dei più antichi erano forse in papiro, e da copie, che, come appare da alcune lacune che qua e là s'incontrano, già erano in parte rose e consunte. Diciotto sono i do

cumenti che comprende in cinquantasette carte, che generalmente hanno ventisei linee di chiara scrittura per ciascuna pagina, e che appariscono numerate con cifre arabiche, quando il codice entrò nell'archivio. Fra questi documenti, il più antico è la carta cornuziana già nominata, e il meno antico un' altra del 1169, che oltre all'avere questa data, fa menzione di quel Simone abbate sublacense che fu dipoi cardinale e viveva appunto in quel tempo (Mirzio Chron. Sublac. c. 19. Iannucelli Mem. di Subiaco e sua Badia p. 170). Nè di ciò, nè della forma dei caratteri di quel secolo si addiede il Suarez, che nel pubblicare la carta cornuziana, stimò che il codice fosse exaratus ante annos (ut videbatur) sexcentos aut septingentos, cioè nel secolo IX o X (Ex libris Tertulliani de execrandis gentium diis, fragm. etc. Romae Typis Vaticanis 1630, p. 8), mentre è chiaro che è da assegnare alla seconda metà del XII, e probabilmente al tempo del vescovo Ottone, del cui episcopato, benchè siano perite le notizie dopo il 1157, si ha però un indizio di lui nel 1160, e nessuno se ne ha del suo successore Milone prima del 1179 (Giustiniani De' vesc. e governat. di Tivoli. Roma 1665, p. 45. Ughelli-Coleti T. I, p. 1308). I documenti poi che vi sono trascritti non seguono l'ordine cronologico, e sembra che poste in capo del volume, per la loro importanza, le bolle pontificie, si scrivessero gli altri secondo che venivano innanzi. A noi però nel pubblicarli, anzichè attenerci alla casuale disposizione ch'ebbero dall'amanuense, parve meglio ordinarli secondo gli anni ai quali appartengono, perchè in tal modo si appresentano secondo l'ordine storico, più spontanea e chiara apparisce la ragione dei fatti e si serve al comodo degli studiosi. La scrittura è tutta di una sola mano, e quale era in uso nella età sopra indicata, ma qua e là vi sono segni di una seconda mano che cercò notare e correggere gli errori della prima, e appose nel margine alcune dichiarazioni che specialmente indicassero i luoghi dei fondi accennati nel testo. In età più tarda una terza mano vi fece altre note e sottolineò molte parole e tratti che importava fossero spe

cialmente osservati per la notizia dei fondi e dei diritti dell'episcopio. Il codice in generale è ben conservato, ma l'umidità ne danneggiò il primo foglio, onde ne fu guasto il disegno che è nel verso, e la maggior parte di un atto che alcuni anni dopo e da altra mano fu scritto nel retto, e nel quale, come di trapassato, si fa menzione del vescovo Guido che ancora viveva nel 1138. Più grave danno fece l'umidità negli ultimi sei fogli, e principalmente in due, dei quali, consunta la pergamena, si perdettero alcune linee.

Colla età che le date cronologiche e la paleografia ci fecero assegnare al codice, convengono pure i cinque disegni che accennano ai documenti ai quali furono aggiunti. I primi quattro, stando in fronte alle bolle, rappresentano i papi Marino II (tav. I), Benedetto VII (tav. II), Giovanni XV (tav. III), Giovanni XVIIII (tav. V), che seduti in cattedra, ed assistiti i due primi da un vescovo, consegnano ai vescovi di Tivoli le impetrate Bolle di privilegio. Nel quarto disegno sono espressi i principali cittadini di Tivoli, quando nell' anno 1000, promisero a s. Lorenzo, per sè e pei loro discendenti, di pagare ogni anno un denaro nel giorno della sua festa. Il modo con cui questi concetti furono espressi, è conforme a quello che si vede in altri codici e pergamene, e talora anche nelle scolture, quando figuratamente rappresentano atti di concessioni o di offerte. Ne porgono esempio e confronto colla tavola IV, la prima pagina del codice Vallicelliano B. 25, 2, nella quale è disegnato a contorno s. Lorenzo, che, seduto in cattedra, accoglie il dono di un libro che gli presenta un suo divoto suddiacono (Vettori Dissertatio philologica p. 89, Romae 1751), e la tavola I del Regesto farfense, nella quale, con disegno parimente a contorno, è rozzamente ritratto lo scrittore Gregorio da Catino che presenta alla Vergine il suo volume (Il Regesto di Farfa pubbl. da I. Giorgi e Ugo Balzani vol. II, tav. I). Nel Regesto tiburtino le tavole hanno il pregio di essere colorite, ma il disegno è rozzo e manca di prospettiva,

e, come non vi appare indizio di scuola bizantina, così nemmeno vi si scorge principio alcuno di risorgimento dell'arte. Di che ne è chiara la ragione se si considera che questi disegni non furono opera di pittori, ma di scrittore o amanuense che, vivendo prima di Giotto e non essendo stato educato alla pittura, adornò, come meglio poteva, il codice con figure e colori. Al qual proposito è da considerare che siccome mostrano minor perizia i dipinti e le miniature che furono condotte in luoghi dove meno che in altri si coltivavano le arti, così è ovvio il pensare perchè i disegni del Regesto tiburtino riuscissero inferiori a quelli, del medesimo secolo, di Roma, di Benevento e di Montecassino. Imperocchè quivi erano scuole di pittura e miniatura, delle quali abbiamo pregevoli esempi nelle pergamene che ci restano, mentre da quelle in fuori del Regesto nessun'altra ne abbiamo di Tivoli, dove, per quanto possiamo congetturare, non fu mai alcuna scuola. Ci basti citare a confronto le pitture della chiesa sotterranea di s. Clemente (De Rossi Bull. di Arch. Cr. 1863, p. 14. Mullooly Saint Clement and his basilica in Rome. Rome 1873), le pergamene degli exultet di Benevento (Agincourt Storia dell'arte. Prato 1829, tav. LIII e LIV) e della biblioteca Barberiniana (ivi, tav. LV) e le miniature di Montecassino (Piscicelli Paleografia artist. di Montecass. 1876-1878). Dai quali confronti apparisce che sebbene i disegni tiburtini mostrino minore arte e perizia, nondimeno sono a quelle contemporanei e da ascrivere al secolo duodecimo, al quale per dati cronologici abbiamo assegnata la compilazione del Regesto.

Molto però ne incresce di non poter paragonare i disegni del Regesto con quelli di un codice evangeliario ornatissimo, che rappresentavano la storia di s. Lorenzo. Ne trovai la notizia in un antico inventario dei beni mobili della chiesa di Tivoli, nel quale si legge: Evangelistarium de littera antiqua cum historia sancti Laurentii, cum figuris ipsius deauratis, coopertum de rubeo cum X cristallis et aliis lapidibus. Intus est depicta historia gloriosissimi martyris levitae Laurentii (Ansaloni St. di Tivoli ms. T. II, p. 83). Gli ornati esterni

che rappresentavano il martire levita erano probabilmente di argento dorato, e l'arte, onde era fuor del comune abbellito, fa credere che nelle maggiori solennità servisse al diacono per leggere l'evangelo nel sacro rito. Delle pitture che ne ornavano i fogli, nulla sappiamo, perchè il codice da lungo tempo è perduto. Nel medesimo inventario ci fu conservata una breve indicazione del Regesto, ed è la sola che mi sia stato dato di ritrovare estratta dall'archivio episcopale di Tivoli. In esso adunque fra vari oggetti si enumera: Unum librum censuarium de littera antiqua in quo sunt variae bullae et privilegia, in quo sunt figurae depictae et est in carta pergameni (Ansaloni 1. c.). Per le quali parole si conosce che questo libro è il Regesto che pubblichiamo.

In quale anno propriamente da Tivoli sia stato portato a Roma e collocato nell'archivio di Castel s. Angelo, non è ancora bene accertato. Non ne fa menzione l'indice che Silvio De Paolis, come afferma il Marini (Mem. stor. degli arch. della S. Sede. Roma 1825, p. 30), condusse a termine nel 1610, ma si riscontra in quello che per ordine di Urbano VIII, con bolla del 27 gennaio 1624, fu compilato coll'intervento dei commissari della Camera, dai quali venne registrato il 21 gennaio del 1627. In questo anno medesimo fu eletto archivista Gio. Battista Confalonieri, e prese a fare un altro indice. Egli non ritrovò il codice al suo luogo, e di più lo vide segnato come mancante in una copia dell'indice precedente, ma quindi, rinvenutolo, appose all'indice un'aggiunta di sua mano, colla quale testificò ch'era in archivio. Quindi con maggior diligenza lo registrò e descrisse Carlo Cartari in quello, che come egli stesso scrisse, cominciò a compilare nel 1638, in questo modo: Liber admodum vetustus paginarum 57 in pergamena in quo continentur nonnullae litterae apostolicae Benedicti Papae VII et Iohannis XV, aliaque instrumenta ad Ecclesiam Tiburtinam spectantia. Dictus liber fuit traditus ab episcopo tiburtino asservandus in bibliotheca vaticana et instat pro recuperatione nonnullorum bonorum a potentibus viris occupatorum, spectantium ad mensam tiburtinam. Ibi habentur nonnullae sacrae

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