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così ruinoso, che il Governo dovette immischiarsene, e bandire severissime gride in proposito. V'ha nell'Ambrosiana una curiosa relazione MS. d'un Torneo eseguito in quella città. Credo, che l'ultimo Torneo Milanese, del quale abbiasi relazione in istampa, sia quello del 1606. Ecco il titolo dell'opuscolo: I giuochi di Marte, ne'quali è descritta la Giostra e'l Torneo, di cui fu il mantenitore l'illus. sig. Francesco Adda, Conte di Sale, Milano, 1606. Furonvi in quel Torneo tre Mastri Generali del Campo, quattro Giudici, sei Avventurieri a cavallo con tre Padrini, dieci Avventurieri a piedi, sotto nome di Baroni Tedeschi, tredici Giudici del Masgalano sì a piedi, che a cavallo, i quali Giudici erano Gentildonne Milanesi e Piemontesi. Non si poteva giuocare meno di 10 scudi, nè più di 100.

Nel secolo di Lodovico Ariosto fiorì quel Giovanni De Medici, celebre condottiero delle bande nere, e restauratore della fanteria Italiana; se quel prode fosse vissuto più a lungo, nè Clemente VII, nè la misera Italia, avrebbero sofferte tante calamità. Fiorirono anco i Ferrucci, gli Strozzi, ed altri eccellenti capitani, che troppo lungo sarebbe nominare. Nel secolo, che noi abbiamo impreso a delineare, gli artefici abbandonavano la tavolozza e lo scarpello per brandire le armi, come fecero fra gli altri Benvenuto Cellini e Michelangelo. Li stessi Sommi Pontefici e Cardinali, in molte occasioni impugnarono la spada: sono note le imprese di Giulio II, e del Vescovo di Novara. I nostri piccoli Sovrani per lo più guidavano essi stessi le loro schiere, provando di essere non meno valorosi in campo, che galanti ne' Tornei, e nelle imprese amorose. Massimiliano Sforza, dopo d' essersi ricoperto di gloria alla battaglia della Riotta, già da noi altrove minutamente descritta *, bandisce un perdono generale ai sudditi ribelli, e spinto dall'indole sua galante e romanzesca, recasi ne' dintorni di Pavia, per vagheggiare una mugnaja,

* Storia di Novara, illustrata con documenti inediti. Fascicolo III. Vigevano, 1834, tipografia Vescovile.

che vi si era domiciliata. È noto poi quale influenza ebbe la bella nostra Clerici sull'animo di Francesco I.

L'Italia nel secolo XVI ora ci si presenta qual Greca Baccante ebbra ne' tripudj e nelle feste, ora quale forte Amazzone, cinta la fronte da sanguinosi allori.

Messer Lodovico scrisse di Ferrara: Dinanzi il Po, di

dietro gli soggiorna D'alta palude un nebuloso gorgo. Prima dell' Ariosto, Dante, per bocca di M. Cacciaguida, disse di lei: Mia donna venne a me di Val di Pado. Benvenuto Cellini, descrive egli pure come assai cattiva l'aria di Ferrara, e lasciò scritto, che venendo verso la state, egli ed i suoi fattorini si ammalarono; gli fu di non poco giovamento l'andare a caccia de' pagoni e delle selvaggine, che annidavano in uno spazio grandissimo ed incolto di terreno, nelle vicinanze di dettá città. Più avanti ci racconta nella sua vita, che tranne i pagoncelli, causa della sua guarigione, altro di buono non vi conobbe nel Ferrarese. Questo severo, e ingiusto giudizio di Benvenuto è in parte compatibile in lui, ove si rifletta che vi dimorava contro sua voglia, e che fu involto in gravi e disgustose querele, come può vedersi nella vita da lui medesimo scritta. Ferrara per la sua posizione non può vantar vivide aure, ma certo è che l'insalubrità del di lei clima viene anche oggidì di troppo esagerata, come si fece di Milano, Pavia, Novara, ed in generale di quasi tutte le altre città, poste nello dolce piano Che da Ver celli a Marcabò dichina.* Paolo Frisi pubblicò in Lucca nel 1761 un bel piano di lavori da farsi per liberare, ed assicurare dalle acque le provincie di Bologna, di Ferrara, ec. con varie annotazioni e riflessioni.

È impossibile trattare delle cose di Ferrara, senza far menzione della celebre Abbazia di Pomposa, situata in una vallea verso marina, a sole trentacinque miglia da quella

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Proposta d'un nuovissimo Commento sopra la Divina Commedia di Dante, per ciò che riguarda la Storia Novarese, Vigevano, 1834, Tipografia Marzoni,

città. È antica tradizione, che allorquando vi abitavano i monaci, il mare fosse assai vicino, e perciò l'aria molto più salubre di quello che non lo sia oggidì, perchè distando alcune miglia dalle foci del Po di Volana, resta in mezzo a paduli ed a gore, che rendono il clima umido e malsano. Intorno alla fondazione di detto Monastero, sonovi due opinioni. La prima è del Sardi, Storico Ferrarese, il quale scrive, che il Monastero, ed Abbazia di Santa Maria di Pomposa, territorio di Comacchio, venne fondato nel 947 da Ugo d'Este, figlio di Uberto. La seconda opinione è del Rosso, Storico di Ravenna; secondo lui Ottone III fu quello che nel 1001 donò a tal Abbazia tutte le terre e castella che possedeva. Soggiunge, che molto prima dette tenute erano degli Arcivescovi di Ravenna; ma Ottone, che volle erigervi quell'insigne chiostro, permutò coll'Arcivescovo Federigo altri beni, e donò quelli di Pomposa alli Monaci, colla Chiesa e Monastero, che vi eresse, onorandoli di particolari esenzioni e privilegi. Ecco le precise parole, registrate nelle tavole Augustali, già esistenti nell'Archivio di S. Vitale di Ravenna, e riferite dal citato Storico: Huic Fridericus in Archiepiscopatum subrogatur, cui anno primo a partu Virginis. supra millesimum, cum Ottone III Cæsare, qui tunc Ravennæ erat, Cœnobium divæ Mariæ in Pomposia, quod ad eam diem Ravennatis Ecclesiae Archiepiscopi possederant, permutavit, ab eo contra accipiens quidquid ad iurisdictionem spectaret omnis terræ etc.... Pomposianum autem Cœnobium Otho omni Archiepiscoporum Ravennatum ditione, ac potestate exemit, voluitque Regio tantum Imperio subiectum essent autem Monachi ab omni servitij molestia tuti, ac immunes: qui de suis quem vellent Abbatem elligerent, ab Comaclensi Episcopo consecrandum: is si esset molestus ac pecuniam postularet proficisserent tum ad Archiepiscopum suum etc. Ravennatem ab eo certis precationibus expiandus, et consecrandus. Quod si idem, quod in Cymaclense in hoc contingeret, adiret ad eum Episcopum qui sibi potior ac melior videretur.

Taluni vogliono, che nell'anno 969 già esistesse il Monastero di Pomposa, ed in prova adducono il diploma di fondazione della Chiesa e Monastero di S. Salvadore presso Pavia. L'Imperatrice Adelaide, secondo il diploma, tolto dal Bollario Cassinese, Vedova di Ottone I, Madre di Ottone II ed Ava di Ottone III, e che professava la Legge Salica, donò al detto Monastero di S. Salvadore 36 Corti infra Italicum Regnum, nel numero delle quali trovasi il Monastero di santa Maria di Pomposa, con molte proprietà di uliveti, e saline in Comacchio. Il diploma è dato nell'anno novecento sessantanove, duodecimo dell'Impero di Ottone II, addì dodici di aprile, indizione duodecima. Mi vengono forti sospetti, che questo documento sia apocrifo per le seguenti ragioni: 1.o Nell'anno suddetto, in cui Adelaide si chiama Vedova di Ottone I, secondo la cronologia del Baronio, dello Spondano, viveva tuttora Ottone I, essendo morto solo nel 973, cioè quattro anni dopo la data di detta donazione. Secondo poi le correzioni cronologiche, proposte dal dotto Bachini che prova, doversi porre l' Era della Natività di Cristo tre anni prima, di quello ponga il Baronio, la morte di Ottone, sarebbe avvenuta nel 970; il che riuscirebbe un anno dopo la data del diploma, nè Adelaide potrebbesi chiamar vedova di Ottone I Imperatore. 2.° Osservo, che Ottone I, nello Spondano si fa morto nel dì 7 maggio dell'anno 973, che ridotto, secondo la correzione suaccennata, viene ad essere addì 7 maggio 970; laddove nella donazione si pone addì 12 aprile dell'anno 969, cioè un anno e venti giorni prima della suddetta morte di Ottone. 3.o In detto diploma si pone l'indizione XII; e nell'anno della morte di Ottone si pone dallo Spondano l'indizione I. Non posso comprendere, come l'anno 969, secondo la donazione riferita, sia indizione XII, e poi l'anno seguente 970 secondo la detta correzione, esser possa l'indizione I. Riducendo poi la morte di Ottone all' anno 970, si ha tuttora nello Spondano stesso l'indizione XIII, che giu stamente segue dopo la XII.

Dal suesposto rilevasi, che anticamente i beni di Pomposa erano posseduti dagli Arcivescovi di Ravenna, e che gli Abbati erano sotto la speciale protezione degli Imperatori; e con ciò pare, che svanisca la probabilità dell'opinione del Sardi, constando, che prima dell'anno 1001 furono quei beni dell'Arcivescovo di Ravenna, non di Ugo, dicendosi Quod ad eam diem Ravennatis Ecclesiæ Archiepiscopi possederant: il che riguarda il possesso temporale delle tenute, perchè poi dello spirituale e giurisdizionale non è da dubitarne; nè di quello ivi si parla. Nè potrebbesi dire, che fosse posseduto dalli Arcivescovi Ravennati dopo la fondazione di Ugo, quasi che esso poi lo donasse alli Arcivescovi, perchè di ciò niun istorico ne parla, nè alcun documento ne sembra ragionevole. Oltre di che il riferito passo dinota un possesso più antico di que'pochi anni, che resterebbero dal 947, sino al 1001, che non sono più di 54 anni, e se ne farebbe menzione in qualche luogo di tal fondazione; il che tutto meglio si conferma considerando le parole del diploma di Ottone III (che noi a suo luogo pubblicheremo), confermato dippoi anche da Ottone IV. Quanto poi alla giurisdizione Ecclesiastica da quello stesso privilegio si deduce, li Abbati, essere stati soggetti al Vescovo, od allo Arcivescovo, in modo però assai decoroso, avendo la libertà in caso d'aggravio, di prevalersi d'altri a loro elezione. Consta per altro, che il detto Monastero era dichiarato di ragione della Chiesa Romana e di particolare Jus pontificio. L'Ughellio riferisce, che Onorio Papa, nell' anno 1125, confermando i privilegi alla Chiesa di Ravenna nella persona di Gualterio, gli raccomanda il Monastero Pomposiano, acciò vi si conservi la regolare osservanza, per esser di ragione della santa Sede, ec. E prima del 1144 si dice ancor commessa a Geberardo Arcivescovo pur di Ravenna, una vigilanza suprema. Obizzone e Rinaldo Estensi, nel 1323 pretesero bensì impossessarsi de'beni di detta Abbazia, forse sul supposto della fondazione de' loro antenati Estensi, ma Giovanni II ne li trattenne, minacciandoli della scomunica.

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