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Le Miracole de Roma

L testo che col titolo Le Miracole de Roma rimase finora inedito nel codice Gaddiano Rel. CXLVIII della Biblioteca Laurenziana di Firenze, può interessare lo studioso delle nostre antichità medioevali principalmente sotto due aspetti: come documento per la storia del volgare romanesco nel primo secolo della sua letteratura, e come un nuovo elemento da acquistarsi alla critica per investigare meglio le origini non per anco chiare di quel curioso. libercolo che tutti conosciamo sotto il titolo di Mirabilia Rome.

Come documento del volgare romanesco può ben dirsi che le Miracole, per vetustà, non hanno dinanzi a sé altro che le Storie de Troia & de Roma (1), seppure di queste non sono contemporanee. Lo stesso codice ha conservato l'uno e l'altro testo; una stessa mano li vergò in quel codice certamente prima che spirasse il secolo XIII (2), e quelle scritture non sono che copie. Il confronto con altri codici permise già per le Storie di risalire alla metà circa del dugento. Non possiamo tentare la stessa indagine per le Mira

(1) La stampa delle Storie da parecchi anni sospesa si sta ora ultimando.

(2) V. in questo Archivio, XII, 152.

cole che giunsero a noi in un codice solo. Ma il colorito idiomatico è identico in ambedue i testi; e quel che oggi conosciamo di romanesco del trecento presenta un aspetto meno arcaico. Non parrà dunque arrischiata l'opinione che anche le Miracole risalgano alla metà circa del secolo tredicesimo o siano di poco posteriori.

Essendo le Miracole come le Storie una traduzione dal latino, è naturale ch' esse ci rappresentino l'uso delle persone colte di quel tempo e non il pretto uso plebeo, cioè lo schietto vernacolo locale. Ma la coltura letteraria di Roma nel dugento fu sì scarsa, che ben poche poteron essere allora fra le due classi cittadine le differenze di favella. A buon conto, quel che qui troviamo differente da quanto può considerarsi più caratteristico del dialetto romanesco nel dugento, si riduce per lo più a latinismi. Quantunque il traduttore fosse così forte in latino da tradurre eburnei in imbruniti 25, censo in incenso 50, ecc., pure dove può egli latineggia; e sono in parte i latinismi soliti, comuni a tutte le scritture volgari di quella età; in parte altri, dovuti alle speciali condizioni di questo testo, ove il traduttore, incontrando nomi per lui strani o altre voci di cui ignorava il significato o non trovava l'equivalente volgare, limitavasi a riprodurne la forma latina alla lettera, senza nemmeno mutarvi le flessioni grammaticali.

Rispetto alla lingua, resta ancora da chiarire se qui occorrano contaminazioni d'altri dialetti, dubbio che tanto più sarebbe giustificato in quanto che il copista non mostra di essere stato romano. È impresumibile che un romano del dugento cadesse in errori come quello del § 6, ove troviamo un forse era, che non dà alcun senso, evidentemente sostituito a fórsera, forma allora corrente in Roma del condizionale

di essere; o come l'altro del § 18, dove bello, privo anche li di senso, fu indubbiamente sostituito a kello, avverbio locale che nell' antico romanesco significava colà. E se questi errori ci allontanano da Roma, il gettava e il gettavano del § 2 faranno pensare a un toscano, risultando finora quasi affatto ignota nel romanesco di quel tempo e nei territorj attigui la sostituzione di g- a j-, che invece fu propria della Toscana. Toscaneggiamento sarà pur da vedere nei plurali molte granneze 5, molte belleze 7, rispondenti nel testo latino a mire magnitudinis, mire pulchritudinis e nel romanesco a molta granneze, molta belleze, come difatto troviamo altre volte in questo testo medesimo. Alla Toscana erano estranei simili forme foggiate sul tipo della quinta declinazione; onde un copista di quella regione ben poté sulle prime vedervi non altro che sconcordanze e quindi correggere a suo modo. Ma al ripetersi degli esempi messo sull'avviso, lo vediamo cessare dalle correzioni, e così nel séguito troveremo molta belleze 8, 15 granne alteze 9 ne l'al teze (lat. in altitudine) 16 ecc. Se dunque, come SOspetto, questo menante fu veramente un toscano, si dovrà riconoscere a sua lode che egli non si lasciò trasportare dalla nota tendenza a toscaneggiare quel che copiava; ma, all' infuori di pochi casi dovuti a imperizia o disattenzione, si mantenne fedele alla scrittura che esemplava e punto ne alterò la fisonomia originale (1). Forse, cercando, si giungerà a pescarvi

(1) Mentre in Toscana, specialmente a Firenze e a Pistoja, cercavasi di rannodare la storia locale con quella di Roma e le leggende delle due regioni s'intrecciavano, non può parer strano l'interesse precoce destatosi colà pure pei Mirabilia; e si comprende facilmente che, oltre il testo latino, là presto se ne cercasse anche uno volgare, come accadde per le Storie de Troia &de Roma. Certo è poi che, dopo il secolo XIII, la Toscana

cole che giunsero a noi in un codice solo. Ma il colorito idiomatico è identico in ambedue i testi; e quel che oggi conosciamo di romanesco del trecento presenta un aspetto meno arcaico. Non parrà dunque arrischiata l'opinione che anche le Miracole risalgano alla metà circa del secolo tredicesimo o siano di poco posteriori.

Essendo le Miracole come le Storie una traduzione dal latino, è naturale ch' esse ci rappresentino l'uso delle persone colte di quel tempo e non il pretto uso plebeo, cioè lo schietto vernacolo locale. Ma la coltura letteraria di Roma nel dugento fu si scarsa, che ben poche poteron essere allora fra le due classi cittadine le differenze di favella. A buon conto, quel che qui troviamo differente da quanto può considerarsi più caratteristico del dialetto romanesco nel dugento, si riduce per lo più a latinismi. Quantunque il traduttore fosse così forte in latino da tradurre eburnei in imbruniti 25, censo in incenso 50, ecc., pure dove può egli latineggia; e sono in parte i latinismi soliti, comuni a tutte le scritture volgari di quella età; in parte altri, dovuti alle speciali condizioni di questo testo, ove il traduttore, incontrando nomi per lui strani o altre voci di cui ignorava il significato o non trovava l'equivalente volgare, limitavasi a riprodurne la forma latina alla lettera, senza nemmeno mutarvi le flessioni grammaticali.

Rispetto alla lingua, resta ancora da chiarire se qui occorrano contaminazioni d'altri dialetti, dubbio che tanto più sarebbe giustificato in quanto che il copista non mostra di essere stato romano. È impresumibile che un romano del dugento cadesse in errori come quello del § 6, ove troviamo un forse era, che non dà alcun senso, evidentemente sostituito a forsera, forma allora corrente in Roma del condizionale

di essere; o come l'altro del § 18, dove bello, privo anche li di senso, fu indubbiamente sostituito a kello, avverbio locale che nell'antico romanesco significava colà. E se questi errori ci allontanano da Roma, il gettava e il gettavano del § 2 faranno pensare a un toscano, risultando finora quasi affatto ignota nel romanesco di quel tempo e nei territorj attigui la sostituzione di g- a j-, che invece fu propria della Toscana. Toscaneggiamento sarà pur da vedere nei plurali molte granneze 5, molte belleze 7, rispondenti nel testo latino a mire magnitudinis, mire pulchritudinis e nel romanesco a molta granneze, molta belleze, come di fatto troviamo altre volte in questo testo medesimo. Alla Toscana erano estranei simili forme foggiate sul tipo della quinta declinazione; onde un copista di quella regione ben poté sulle prime vedervi non altro che sconcordanze e quindi correggere a suo modo. Ma al ripetersi degli esempi messo sull' avviso, lo vediamo cessare dalle correzioni, e così nel séguito troveremo molta belleze 8, 15 granne alteze 9 ne l'alteze (lat. in altitudine) 16 ecc. Se dunque, come SOspetto, questo menante fu veramente un toscano, si dovrà riconoscere a sua lode che egli non si lasciò trasportare dalla nota tendenza a toscaneggiare quel che copiava; ma, all'infuori di pochi casi dovuti a imperizia o disattenzione, si mantenne fedele alla scrittura che esemplava e punto ne alterò la fisonomia. originale (1). Forse, cercando, si giungerà a pescarvi

(1) Mentre in Toscana, specialmente a Firenze e a Pistoja, cercavasi di rannodare la storia locale con quella di Roma e le leggende delle due regioni s'intrecciavano, non può parer strano l'interesse precoce destatosi colà pure pei Mirabilia; e si comprende facilmente che, oltre il testo latino, là presto se ne cercasse anche uno volgare, come accadde per le Storie de Troia & de Roma. Certo è poi che, dopo il secolo XIII, la Toscana

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