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« rivela..... Tuttavolta i fratelli dicano loro sentenza con << umile soggezione ». E conchiude. « Laonde quanti sono «la Regola, che è a tutti maestra, seguano, e nissuno da << questa presumente trasvada ». Ma perchè i capi non si traessero dall'obbligo delle convocazioni, togliendo rilievo ai negozî, e perciò la necessità alle comuni deliberazioni, soggiunge. «Se poi siano a trattarsi meno gravi negozî, che << anche mirano a vantaggiare il monastero, l'abate usi del << consiglio de' seniori, trovando scritto: Opera tutto con con«siglio, e del fatto non avrai a pentirti ». Dell'orazione, del cibo, del lavoro, degl'infermi, degli ospiti, e di tutto quello che riguardava la disciplina sapientemente discorre, con grande temperanza e carità. Bello è ciò che dice della preghiera. «Abbiamo per fermo, non per molto parlare, ma per purezza << del cuore, e per compungimento delle lagrime Dio ascol <tarci. Laonde breve e pura è mestieri che sia la preghiera, << salvo che non la faccia prolissa ispirazione di divina grazia. « La orazione comune sia brieve: e dato il segno dal Priore << tutti si levino ad un tempo ». Di cibo e di bevanda dava ai suoi monaci tanto quanto non facesse balda la carne, e la carne sufficientemente aiutasse in una parola tutto sapientemente dispose a condurre a salute uomini infermi di umanità, e non angeli.

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In questo aureo volume della Regola troviamo quale fosse la interna ordinazione della Badia, quale la vita che menassero que' primi Cassinesi. Le porte del monastero erano aperte ad ogni sorta di uomini volenterosi di bene: non guardavasi ad età od a rango, erano tutti uguali agli occhi di quel legislatore. Dappoi in alcuni monasteri si vollero monaci patrizî; ma S. Benedetto non li volle. Tutta la congregazione dividevasi in tre compagnie, dei fanciulli, de'novizî e de'professi. I fanciulli erano coloro che da'parenti venivano offerti a Dio, c fin dalla puerizia si consagravano a lui per la vita monastica. I novizî erano quelli che si mettevano a prova per conoscere della loro vocazione, innanzi si votassero a Dio. I professi erano i veri

monaci che avevano votato castità povertà ed ubbidienza ; ma i voti non erano solenni ossia perpetui; dappoi si perpetuarono, e perciò divennero insolubili. Costoro vestivano una tonica ed una cuculla che stringevano ai lombi con una cintura, e nei lavori del giorno sovrapponevano uno scapolare, ossia certa roba che dalle spalle scendeva per gli omeri e pel petto; e di questo usavano a curare la mondezza delle vesti. Queste erano di nessun pregio e varie di colori, perchè del colore S. Benedetto volle che i monaci non si prendessero pensiero. Purtuttavia quando per alcun negozio questi escivano di monastero, indossavano una veste meno povera per non dar vista troppo singolare ai secolari. Tutti erano laici, e coloro che provatissimi di virtù erano dall'abate deputati al sacerdozio, avevano raso il capo in guisa che quella tonsura rendeva vista di corona. Si levavano la notte alle salmodie: le altre ore notturne passavano leggendo sacri libri e meditando; al rompere del giorno tornavano a salmeggiare, poi si ponevano al lavor delle mani, cioè, a coltivare la terra, a raccoglierne i frutti ed a rifiorirla; chiudevano il giorno colle consuete salmodie.

Sedevano a mensa comune: due pulmenti cotti ossia vivande mangiavano, e alcune volte loro se ne concedeva un'altra. Bevevano vino: si astenevano dalla carne de' quadrupedi; però ne mangiavano gl'infermi: non era legge sulla quantità delle vivande; facevale più abbondante il lavoro più prolungato od altra cagione a talento dell'abate. Dormivano vestiti in peculiari letti, ne' quali non era cosa che accennasse a troppa comodità de' giacenti, ma neppure a singolare rigore. Sufficiente il sonno della notte, e quello del giorno nella state. Nulla avevano di proprio, tutto comune, ma anche di nulla difettavano, essendo tale la provvidente carità de' capi, che i bisogni e le inchieste erano prevenute. Non si chiamavano d'altro nome che con quello di Fratello, e i seniori, Padri, Signore e Padre l'Abate addimandavano. L'infermo e l'ospite era tenuto come cosa di Dio, anzi Cristo istesso curavasi ed

accoglievasi nella persona di loro. Se godessero pace, e rendessero frutti di buone opere que' primi monaci in sì bella ordinazione d'ogni loro cosa, non è a dire.

Ma se era tanta copia di argomenti alla santificazione de' cuori, non è a credere che le menti torpissero, e non vi fosse il come coltivarle con qualche disciplina di lettere o di arti. Vi era nel monastero una libreria, donde i monaci toglievano i codici e ne facevano pubblica e privata lettura dopo la refezione della sera. E nel tempo della quaresima correva obbligo di leggere tutti i codici (1): lo che, se mostra la pochezza di questi, tuttavia ne chiarisce che ponevasi alcuna opera nello studio dei libri e nel copiarli per moltiplicarne gli esemplari. Infatti troviamo nella Regola che i monaci avevano il necessario a scrivere, come lo stile e le tavolette (graphium et tabula). Leggesi anche in quella un capitolo che riguarda gli artefici, ossia monaci, che, volente l'Abate, esercitavano alcun'arte; e le manifatture di loro si usavano a comodo comune, oppure si portavano a vendere a scarso prezzo, per cessare il vizio dell'avarizia, e perchè ne venisse gloria a Dio dai secolari. Così questa compagnia di monaci sicura e guardata da Religione, che leggevano, coltivavano la terra, esercitavano le arti in mezzo alla grande società che scomponevasi per barbarie, preparava il germe della futura civiltà e ricomposizione de' popoli.

e

Narrammo come Tertullo avesse offerto al Santo un suo figliuolo di nome Placido: colui risaputo del felice andare di ogni cosa nel monastero Cassinese, mosse di Roma con Equizio, Gordiano, Vitaliano, e que' due famosi Simmaco e Boezio, trasse a Monte-Cassino a rivedere il suo figlio (532), a visitare quella congregazione di monaci, che sotto tanto maestro rendeva immagine di Paradiso. A testimoniare la sua devozione al Santo, gli donò dodici corti ossia poderi in Sicilia, (2) e questa

(1) Reg. S. B. Cap. 48.

(2) Leo Ost. Cap. I. Gord. Vita S. Plac.

donazione confidò ad una scrittura di cui avanza copia (1) fatta nel secolo X, ed in cui leggonsi i nomi di Simmaco e di Boezio. A curare queste terre spedi poi S. Benedetto il discepolo Placido, il quale, levato un monastero presso Messina, propagò l'ordine Benedettino in Sicilia ; e poi per mano di Saraceni venuti di Spagna fu ucciso con Flavia sorella, con Vittorino ed altri in odio della fede. Secondo l'opinione di alcuni il buon patrizio Tertullo fini i suoi giorni nella Badia Cassinese nel dì 14 di Luglio dell'anno 536, e fu seppellito innanzi la porta del refettorio (2). Certo è che la memoria di lui come di singolare benefattore non è caduta dall'animo dei Cassinesi; e da quattordici secoli con solenne annuale pregano requie all'anima di lui. E per testimoniare ai posteri la conoscenza per le pietose donazioni, gli levarono una statua nell' atrio della Basilica nello scorso secolo.

Era pace in quella beata Badia, ma guerra al di fuori che disertava il bellissimo paese. Goti e Greci vi combattevano, ed era molta rovina; perchè Totila re di quelli era forte battagliero, e spesso usava da barbaro della vittoria. Costui venendo di Toscana in questa parte cistiberina con poderoso esercito, (542) e udito della santità dell'abate del monastero Cassinese, volle chiarirsene, saggiando se avesse o nò spirito di profezia. Fece vestire alla reale un suo scudiero di nome Riggo, e con molto seguito, come se vero re fosse, lo mandò ad inchinare il Santo, per certificarsi se per superno lume potesse in quelle vesti mentite discernere il servo dal padrone. Ma come l'uomo di Dio l'ebbe affisato da lungi, gli gridò contra « Togliti quella roba, o figliuolo, che non è tua. >> Colui maravigliò di quello scoprimento che non poteva farsi da altro che da un profeta, ristette tutto confuso, e non osò appressarglisi ; ma tornò su i suoi passi a rapportar al re l'avvenuto. Allora Totila certificato della santità di Benedetto, venne a

(1) Ved. Doc. C.

(2) Burman. Thes. Antiq. Vol. 22 colum. 54.

visitarlo; e vergognando del fatto, riverente gli si gittò ai piedi come a chiederlo di perdono. Il Santo lo levò con molta dolcezza di modi: poi ripensando al molto sangue che spargeva quel conquistatore, ed ai mali che pativa Italia per lui, tolse liberamente a dirgli che rattemprasse le ire della guerra; non infuriasse contro l'infelice paese; raumiliasse gli spiriti : conquisterebbe Roma; varcherebbe il mare; a capo di dieci anni perderebbe e regno e vita. Queste parole grandemente commossero l'animo del re, che riputandole come dette da Dio, umilmente pregò il Santo, che lo raccomandasse a lui, e si partì. (1) La predizione si verificò a capello: e Totila andò poi così rattenuto e pietoso verso i vinti, che non che barbaro, ma neppur nemico lo provarono i Napolitani quando vennero in sua balia (2). Con questo fatto il santo abate dava a’suoi monaci un bel documento di patria carità, quasi esortandoli a non chiudere l'animo alle calamità della patria, ma potendo, a questa soccorrere.

Vivendo ancora il Santo, l'Ordine di lui cominciò a propagarsi in più lontani paesi. Accennai della deputazione di S. Placido in Sicilia, e de' monasteri per sua cura fondati in quell'isola. Oltre a questi fu a petizione di certo uomo devoto levato un altro monastero presso Terracina che andarono ad abitare alcuni discepoli del Santo (3). Mentre a questo godeva l'animo per la propagazione della Regola, Iddio gli rivelò, come, scorsi quarant'anni dalla sua morte sarebbe stato messo a soqquadro quel caro monastero di Monte-Cassino, in cui aveva posto tutto il cuor suo. Avvenne un giorno, che un Teoprobo, essendosi fatto alla celletta di lui, lo trovò tutto trangosciato e amaramente lamentando: maravigliò colui, non ne sapendo la cagione, ma richiestala. « Ahimè! rispose << il Santo, verrà tempo in cui tutto questo monastero, fiorente << come il vedi, ed ogni altra cosa che ho fatto pe'miei fratelli,

(1) S. Greg. Dialog. lib. 2.

(2) Procop. lib. III. De bello Got.
(3) Lev. Ost.

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