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un petit I, qui pouvait terminer le mot précédent, à moins qu'on ne doive lire Ussier bsillae. Il est dommage que ces noms celtiques ne soient pas plus lisibles, car ils constituent l'intérêt principal de notre inscription.

La troisième ligne ne peut être restituée; elle devait donner les noms de ceux qui ont élevé le monument, comme on peut le conclure de la quatrième, où l'on peut lire fil[i] vi[v]i fecerunt. La formule de l'épitaphe était donc celle-ci : Dis Manibus. Illi et illi, coniugi eius defunctae, filii fecerunt.

Quant à la provenance de ce monument, on peut croire qu'il venait d'un tombeau voisin de la voie romaine reliant Reims à Trèves et passant par Etalle, où il y avait un relai (stabulum). C'est d'autant plus vraisemblable que la colonne milliaire, découverte en même temps, provenait probablement d'Etalle.

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XX. COLONNE MILLIAIRE TROUVÉE A BUZENOL

La colonne milliaire (fig. 4), trouvée dans les mêmes fouilles, est également mutilée en haut et en bas; sa surface est devenue fruste et elle est couverte de concrétions calcaires, qui rendent malheureusement la lecture de l'inscription à peu près impossible. Elle mesure encore en hauteur 0 m. 85 et au tour 1 m. 35. Nous lisons, mais avec beaucoup d'hésitation :

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En haut se trouvait donc le nom de l'empereur sous le règne duquel la colonne fut mise en place. Il ne reste que trib(unicia) pot(estate) VIII. Le nom de l'empereur ne peut pas être déterminé.

La colonne devait être primitivement placée sur la voie romaine conduisant de Trèves à Reims, au relai (stabulum) dont Etalle a tiré son nom. M. le baron de Loë, qui en a donné une photographie dans son excellent guide archéologique (1), dit «< que cette borne était placée en un point éloigné de Trèves (ab Augusta) de 57 milles, ce qui équivaut à 84,445, 50 mètres. Or, continue-t-il, ce chiflre représente précisément la distance qui sépare Etalle de l'ancienne capitale des Trévires. Il appert donc que le milliaire de Buzenol se trouvait jadis à Etalle, sur la voie de Reims à Trèves ». Nous n'oserions pas être aussi affirmatif en ce qui concerne la lecture: LVII m(ilia) p(assuum).

J.-P. WALTZING.

(1) Baron DE LOE, Notions d'archéologie préhistorique belgo-romaine et franque à l'usage des touristes. Publié par le Touring-Club en 1921. 281 pp. Voy. à la p. 179, fig. 141.

La Storia della Versione dei Settanta e l'Antichità della Bibbia nell' Apologetico di Tertulliano

SAGGIO SULLE FONTI FILOLOGICHE

Tertulliano dopo di avere ribattuto le false opinioni, che i pagani avevano del Cristianesimo, ossia le calunnie di onolatria, di adorazione di una croce, del culto del Sole e di un dio ibrido, come si vedeva nella pittura, che quel mercenarius noxius portava in giro per le vie di Cartagine (c. 16), stabilisce finalmente il dogma fondamentale della nuova religione. Noi, dice l'Apologista, non crediamo che in un Dio unico, un Dio, che ha creato dal nulla l'immensa mole di questo mondo in maniera cosi armonica che i Greci lo hanno chiamato xóauos (c. 17). E per provare questo suo monoteismo fa appello a due argomenti, il cui valore filosofico anche oggi non si saprebbe disconoscere uno, l'argomento ontologico, ossia il bisogno innato, che la coscienza umana ha avuto di Dio in ogni tempo, l' adsidua quaestio de deo, per cui Tertulliano esce in quella espressione, divenuta ormai famosa o anima naturaliter christiana (c. 17). L'altro, l'argomento storico della Rivelazione biblica (c. 18), la cui autorità divina è dimostrata dall' altissima antichità della Scrittura (c. 19) e dall'avveramento storico delle Profezie (c. 20).

Ora premessa la storia della Versione dei Settanta, Tertulliano nell'annunziare i dati cronologici dell'antichità della Bibbia e di Mosé, e nel mostrare come la storia avesse risposto fedelmente alle predizioni dei Profeti, ci dà un saggio del come egli citi principalmente le sue fonti letterarie in tutto l'Apologetico.

Già si sa, egli va da un estremo all'altro: ora cita minuziosamente la fonte, come Cornelio Tacito e perfino il libro delle sue Storie, sebbene erroneamente, a proposito della origine della calunnia di onolatria (c. 16); ora invece non vi accenna affatto, come per S. Giustino, di cui si è servito ampiamente nell' esordio

dell' Apologetico, per dimostrare l'iniquità della procedura romana contro i cristiani. Fra l'uno e l'altro modo però, ce n'é un terzo e questo più frequente, in cui l'Apologista cita bensi gli Autori, ma di seconda mano e a memoria (1). Così ad esempio, quando ribatte il pregiudizio che i Cristiani erano la causa di tutte le publiche calamità, egli trascrive un luogo dell' Historia naturalis, ma invece di citare Plinio, cita Platone ch'é appunto la fonte del naturalista (c. 40). Questo ultimo modo di citazioni é appunto quello che predomina nella storia della Versione dei Settanta.

Tolomeo Filadelfo aveva ereditato dal padre Sotero insieme con la tendenza al mecenatismo un così grande amore per la cultura da degradarne Pisistrato. Epperò del Museo di Alessandria aveva fatto la dimora dei sapienti e dei letterati, che numerosi accorrevano alla capitale dell' Egitto, e della Biblioteca l'arca di tutte le letterature antiche (2). Fortuna volle che si trovasse accanto a lui Demetrio Falereo, oratore, filosofo, poeta, uomo di stato,il quale gareggiando col re nei propositi di ampliare la biblioteca, portava il contributo della sua grande competenza per la scelta delle opere da acquistare. Fu cosi che un giorno egli suggerì a Tolomeo di scrivere ad Eleazaro, pontefice e re di Gerusalemme, per ottenere i libri sacri, che gli Ebrei conservavano gelosamente. E poichè essi erano scritti in lingua caldaica, aggiunse di chiedere l'invio di 72 interpreti, che li traducessero in greco. La traduzione è compilata di comune accordo dai dotti seniori nell' isola di Faro e i libri sono riposti, con cura religiosa e con grande soddisfazione del re nella Biblioteca d'Alessandria.

Questo racconto ci vien fatto da Tertulliano nel suo Apologetico, ma egli ha un bel ripeterci : adfirmavit haec vobis etiam Aristaeus, riferendosi a quella pretesa lettera dell' ufficiale della corte di Tolomeo Filadelfo, che oramai la critica ha dimostrato apocrifa (3). In realtà egli calca le orme di Flavio Giuseppe, il quale nelle sue Antichità giudaiche cita lo pseudo-Aristea e riproduce la lettera a Filocrate con fedeltà e anche con certa ampiezza, avendo tralasciato soltanto le conversazioni dotte, che avvennero alla mensa del re nei dodici giorni di convito (4).

(1) GEFFCKEN, Zwei griechische Apologeten, p. 283, n. 2.

(2) DAREMBERG et SAGLIO, s. v. Museum.

(3) Aristeae ad Philocratem epistula, ed. P. WENDLAND, prefazione. (4) FLAVIO GIUSEPPE, Antich. Giud., 1. XII, c. 2.

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