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in due sottostipiti, di cui il primo diede origine ai marchesati del Bosco, di Ponzone e d'Albisola (1), i quali a loro volta si suddivisero in quelli di Pareto, d'Ussecio o Belforte, Varazze, Celle, Stella, ecc.; l'altra gettò i rami dei marchesi del Vasto o di Loreto; d'onde rampollarono i sottorami d'Incisa, Saluzzo, Busca, Albenga, Cortemiglia, e via via i ramoscelli di Ceva, Clavesana, Del Carretto, Cossano, Finale, Millesimo, Novello, Balestrino, ecc.

Ora, il nesso di consanguineità fra queste due linee parallele, il cui sviluppo storico, grazie agli studi dei genealogisti, è oggimai conosciuto con sufficiente approssimazione, viene appunto accertato e dichiarato dal documento oggetto della presente pubblicazione: emergendo indubbiamente da esso che i marchesi Anselmo ed Oddone, stipiti delle due linee, erano fratelli, figli ambedue del marchese Aleramo, e che quindi le due linee hanno uno stesso punto di partenza.

Trattasi di due rivi scorrenti bensì in letto diverso, ma sgorganti da una medesima fonte; o meglio, di due branche madri, aventi ognuna i suoi rami e sottorami, ma rampollate ambedue da uno stesso fusto e formanti insieme un solo albero.

Gli è sopratutto sulla fede di questo documento che il Moriondo ha potuto stabilire, come già accennai, le prime linee della genealogia dei marchesi di Monferrato; gli è sulla base dei dati da esso proferti che poggiano la sinossi della discendenza aleramica e la teoria della diramazione dei Marchesati dalla Marca del non mai abbastanza rimpianto comm. Desimoni.

La genuinità del documento non fu mai seriamente contestata. Non vuolsi però tacere come il p. G. B. Spotorno, pur ritenendo autentico l'atto originale, sentenziasse il medesimo esser stato più tardi in qualche sua parte interpolato, e doversi, in particolare, considerare quale una giunta posteriore la clausola riguardante la donazione al Monastero di S. Quintino di Spigno dell'Abazia di S. Mauro nel territorio di Pulcherada sulla riva del Po (2).

L'illustre critico cita a sostegno della sua tesi l'atto dei 9 luglio 1029, col quale Alrico vescovo d'Asti e Odelrico Manfredi dei marchesi di Torino, suo fratello, colla moglie contessa Berta, fanno donazione, come di cosa propria, al Monastero di S. Giusto di Susa di quella stessa Badia di S. Mauro che nel nostro documento figura come donata dal marchese Anselmo e condomini al Monastero di S. Quintino di Spigno (3).

La tesi del p. Spotorno implica che la membrana di cui il Moriondo ebbe copia non sia altrimenti l'atto originale, bensì una scrittura di età posteriore. Ora, contro un tal presupposto stanno, come si è visto, i caratteri estrinseci della pergamena stessa, che lo Spotorno, del resto, mai non ebbe occasione di vedere, mentre ognuno può oggi farsene un giusto criterio mercè l'annesso esemplare fototipico.

Senonchè, lasciando anche in disparte ogni questione pregiudiziale, non c'è punto bisogno di ricorrere all'ipotesi d'una interpolazione per spiegare la

(1) VITTORIO POGGI, Albisola, negli Atti della Società Storica savonese, I, p. 47 e sgg. (2) V. il suo articolo Spigno in GOFFREDO CASALIS, Dizionario geografico - storico - statistico-commerciale degli Stati di S. M. il re di Sardegna, vol. XX, pag. 419 e seg.

(3) M. H. P. Chartarum I, col. 480.

ricorrenza d'una clausola relativa ad uno stesso oggetto in due atti passati fra diverse persone, quando fra questi due atti interceda uno spazio di ben

trentotto anni.

Nulla osta a credere che all'epoca in cui if marchese Anselmo fondò il Monastero di S. Quintino, la proprietà dell'Abazia di S. Mauro fosse oggetto di contestazione fra i marchesi di casa aleramica e quelli di casa arduinica. Forse accenna a qualche cosa di simile lo stesso atto di fondazione, là dove dice: «offerimus eciam eidem monasterio abacia(m) unam iuris mei, qua(m) habere visus sum in loco et fundo Pulcherade super fluvio Padi... ». Facendone dono ad un monastero, il march. Anselmo affermava i suoi diritti e interessava la Chiesa a prenderne la difesa e ad esperirli in causa propria. Può darsi similmente che nel frattempo abbia avuto luogo una permuta ne abbondano esempi in quei tempi — o altro regolare trapasso di proprietà. Non sono rari nell'età di mezzo i casi d'una data proprietà ceduta successivamente da diverse e talvolta anche dalla stessa persona a più enti, specie ecclesiastici. È risaputo come le cessioni di beni a Chiese e a Monasteri fossero spesse volte fittizie e nulla più che atti apparenti di spontaneo vassallaggio, allo scopo di mettere in bella mostra la propria pietà e qualche volta anche di porre i proprii beni sotto l'egida delle immunità ecclesiastiche. È lecito credere che in molte di tali donazioni fosse implicita la condizione che non dovessero avere effetto se non dopo l'estinzione dell'intiera linea del donatore. Fu giustamente osservato che, se non fossero state in gran parte concertate con tale simulato intendimento le tante donazioni che si facevano in quei tempi a Chiese ed a Monasteri, troppo più ricchi questi sarebbero stati di quanto in realtà non fossero (1).

Per citare un esempio dei più semplici, Guelfo marchese di Albisola con atto del 1122 dona ed offre il castello del capoluogo del suo piccolo Stato, con fondi annessi, alla Basilica di S. M. di Savona (2). Viceversa poi, egli e i suoi successori conservano la proprietà e il possesso dell'avito castello; tanto che, quattordici anni dopo, Federata, vedova del march. Guelfo, e Ferraria loro figlia, con atto 10 febbraio 1136 in cui non si fa neppur cenno della precedente donazione fanno nuovo omaggio dello stesso castello agli uomini Maggiori e Minori, ossia al Comune di Savona (3); il che non impedisce a Ferraria di fare nel 1139 un nuovo atto di sottomissione del suo castello al Comune di Genova (4). Basti ciò per dar la misura della larghezza d'interpretazione di cui erano suscettive le carte d'offersione, come le chia

mavano.

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Dal sin qui detto parmi risulti in modo abbastanza evidente non potersi ragionevolmente impugnare l'atto del 991 in quanto riguarda la donazione al Monastero di S. Quintino di Spigno della Badia di S. Mauro, sul motivo

(1) GIULIO DI S. QUINTINO, op. cit., I, p. 92, n. Forse che, aggiunge egli in proposito, con un fine ben poco diverso non si facevano e non si fanno da noi ancora le così dette commende a pro dei religiosi ordini militari?

(2) VITTORIO POGGI, op. cit., p. 150.

(3) Id., ibid., p. 151.

(4) Liber iurium Reipublicae Genuensis, I, col. 65.

che questa stessa Badia figura nell'atto del 1029 fra gli elementi di dotazione del Monastero di S. Giusto di Susa.

Con pari ragione si potrebbe impugnare a sua volta l'atto del 1029, perchè la stessa Badia di S. Mauro « in vico Pulcherada, cum suis pertinentiis noi la troviamo far parte della dotazione della Chiesa di S. Giovanni di Torino, dotazione riconosciuta e confermata con Privilegio dell'imperatore Federico I al vescovo Carlo in data dei 26 gennaio 1159 (1).

Rimarrebbe a vedere se non sia possibile riempiere la lacuna esistente nella linea 22 della pergamena e supplire il nome topografico che fa seguito all'altro di « pereto » e comincia colle lettere « al..... ».

Credo che anche questo quesito possa ricevere una soluzione esauriente. In mancanza d'altro esemplare antico con cui confrontare il testo della membrana a noi pervenuta, i dati più attendibili per la restituzione del nome di cui si deplora la perdita ce li potrà fornire la Bolla del 5 maggio 1178, colla quale papa Alessandro III concede diversi privilegi agli abati di S. Quintino di Spigno, e conferma i beni e i diritti di cui erano legittimamente investiti (Moriondo I, col. 74). In questa Bolla sono nominati i luoghi ove si trovavano le Chiese, i beni e i diritti che costituivano allora il patrimonio del Monastero; e sarà naturalmente nella lunga serie di questi nomi che si dovrà ricercare quello che manca nella nostra pergamena.

Si capisce come non tutti i nomi citati nella Bolla papale riscontrino con quelli dell'atto di fondazione. Se ne trovano molti in più; e sono quelli dei beni provenuti al Monastero per effetto di ulteriori donazioni nel decorso di quasi due secoli dalla data della fondazione: ve ne sono anche in meno, e sono quelli dei beni perduti nel frattempo, fra cui appunto la tante volte citata Badia di S. Mauro nel territorio di Pulcherada.

Ma se nella serie dei nomi locali citati dalla Bolla uno ne troveremo che cominci colle lettere al e che per la sua ubicazione rispetto ad altri nomi enunciati nell'atto di fondazione, non meno che pel numero delle lettere di cui consta, mostri di rispondere alle esigenze dello spazio e del testo, dovremo ritenere come estremamente probabile che sia quello il nome ricercato. Che se la realtà di diritti esercitati sul luogo di questo nome dall'abate del Monastero di S. Quintino sia inoltre accertata dai dati storici, sarà eliminato anche il dubbio che possa essersi insinuato qualche errore di nome nella compilazione o nella trascrizione della Bolla papale, e la probabilità assumerà perciò il carattere d'una assoluta certezza.

Nella fattispecie, un passo della Bolla riconosce e conferma la giurisdizione dei monaci di S. Quintino sul luogo di Ellera « cum duabus ecclesiis ». Siccome Ellera era allora, e fu sino alla fine del secolo XVIII, una frazione di Albisola, si potrebbe giustamente pensare che, invece del nome di Ellera, nell'atto di fondazione sia stato adoperato quello più proprio, e più in allora usitato, di Albisola; nome che calzerebbe a capello al caso pratico. Ma v’ha nel documento pontificio un passo anche più esplicito, ed è quello in cui si confermano, insieme a tanti altri, i diritti che i monaci di S. Quintino ave

(1) Chartarum, I, col. 817.

vano in Pereto, in Varazze e in Albissola «... ius quod habetis... in Pereto, et in Veragino et in Albuzzola ».

Di fronte ad un'affermazione così precisa scompare ogni dubbio; e poichè l'esistenza di beni e diritti spettanti all'abate di S. Quintino di Spigno su Albisola è inoltre attestata dai dati storici locali (1), noi possiamo con piena sicurezza proporre il supplemento: « al[buzzola] », i cui elementi ci vengono forniti da un documento ufficiale ed affine. Rimane così colmata la sola lacuna che la corrosione della membrana abbia prodotto nel testo, e restituito a questo un nome lasciato finora in bianco da tutti i suoi espositori.

Aggiungerò poche parole intorno al metodo di pubblicazione. Pur riconoscendo, in massima, l'utilità del metodo adottato dall'Istituto Storico Italiano > nella pubblicazione dei documenti medioevali, in quanto riguarda l'applicazione della punteggiatura e l'uso delle maiuscole secondo le regole odierne, ho tuttavia preferito nella fattispecie la riproduzione fedele del testo in base all'originale: giacchè il metodo a cui si accenna, mentre ha incontestabilmente il vantaggio di rendere assai più agevole la lettura dei documenti, può per contro, in alcuni casi, pregiudicarne l'interpretazione, che è del massimo interesse lasciar libera da ogni possibile influenza. Ho dunque riprodotto il documento prout iacet, limitandomi nella trascrizione a sciogliere le sigle e le abbreviature paleografiche: il che mi varrà, quanto meno, il suffragio di quegli eruditi che, come il chiar. prof. F. Gabotto (2), fanno oggetto di studio anche l'ortografia delle scritture medioevali.

(1) Lo storiografo G. V. Verzellino (Delle memorie particolari e specialmente degli uomini illustri della città di Savona), sotto la data del 1356, parlando di Benedetto, abate di S. Quintino di Spigno, dice che « gli spettava la Chiesa di S. Salvatore di Ellera ».

In un trascritto da atti capitolari della Cattedrale di Savona, sotto la data del 1530, quando il cardinale Agostino Spinola, vescovo di Savona, era camerlengo a Roma, leggesi : «... Ecclesia Sancti Salvatoris supra Albisolam dicitur pertinere ad Sanctum Quintinum. Et ibidem est alia Ecclesia S. Mariae, Albisolae, dirupta..... »

(2) Cartario di Pinerolo fino all'anno 1300, in « Biblioteca della Società storica Subalpina », II, p. 11.

(Signum tabellionis). In nomine sancte et indiuidue trinitatis. anno incarnacionis domin[i nostri ihesu] xpi nognentesimo nonagesimo primo quarto die mensis. madii indicione quarta. dum fragilis ac caduca uita homo in seculum uiuit et recte loqui potest iucundus erit si res suas disponit bono animo unde ualeat seruire altissimo domino. et adquirere felicitatis gaudium et premium sine fine mansurum. Et dum cogitaui tremendum diem iudicis impio nefandum (1) retribucionem recipiendos . et felicem desiderabilem uocem audiendos prouidimus nos anselmus (2) marchio filius bone memorie aledrami itemque marchio. Et gisla comitissa iugalibus (3) filia adalbertis similique mar- 10 chioque Uuilielmus et riprandus (4) germanis filio (5) bone memorie oddoni que professa sum. ego ipsa gisla ex nacione mea legem uiuere longobardorum (6) sed nunc pro ipso uiro meo legem uiuere uideor salica et iusta lege mea in qua nata sum huna cum noticia domini gaidaldi comes istius comitatu aquensis (7) de sub cuius iudiciaria

(1) Recte impios nefandam.

Non è mio proposito raddrizzare tutte le storture ortografiche e grammaticali del testo. Mi restringerò a quelle che potrebbero indurre confusione e incertezza nell'animo di coloro i quali non abbiano molta famigliarità coi documenti dell'alto medio evo. Per le altre supplirà facilmente il buon senso del lettore.

(2) Ho segnato nella prefazione il posto che questi marchesi Anselmo ed Oddone occupano nell'albero genealogico degli Aleramici, come pure ho indicato, in modo affatto sommario, le linee marchionali di cui ognun d'essi fu stipite.

Son quei dessi che nel 961, insieme al loro padre, marchese Aleramo, aveano fondato il Monastero di Grazzano nel basso Monferrato (MORIONDO, II, doc. 7, p. 292). Nel 991, data del nostro documento, Aleramo ed Oddone erano morti, non consta da quando: quest'ultimo è rappresentato nell'atto dai due suoi figli, Guglielmo e Riprando.

(3) iugalis.

(4) Questi marchesi Guglielmo e Riprando, figli di Oddone e nipoti di Anselmo, figurano in atto autografo del 1000 circa, come autori d'una donazione di beni alla Chiesa episcopale di Acqui (MORIONDO, I, doc. 9, p. 17). Mal s'appone il Moriondo, che del Riprando vuol farne un vescovo. Guglielmo lo troviamo placitante col cugino Oberto nel 1004 a Vado, del cui Comitato si intitolano marchesi e conti. « Willelmus et Obertus marchiones et comites istius Comitatus Vadensis ». È lo stesso che più tardi tien testa strenuamente in Olba alle truppe imperiali condotte dal vescovo Leone di Vercelli, e di cui è menzione nelle lettere di costui all'imperatore Enrico II, edite dal Bloch.

(5) germani, filii.

(6) La contessa Gisla, figlia del marchese Adalberto e moglie del marchese Anselmo, professandosi di legge longobarda ex natione, rimane escluso che il marchese Adalberto suo padre appartenesse alla prosapia degli omonimi marchesi d'Ivrea, giacchè questi, come gli Aleramici, erano di legge salica. Essa era dunque assai probabilmente di casa obertenga, e nasceva da quel marchese Adalberto I, figlio di Oberto I e fratello di Oberto II di Genova, dal quale discendono i Pallavicini e i Marchesi di Massa e di Parodi come da Oberto II gli Estensi e i Malaspina.

Della contessa Gisla sappiamo ch'era ancora in vita nel 1014.

(7) Questo Gaidaldo, conte del Comitato d'Acqui, rimane un punto interrogativo nella storia della Marca aleramica, anche dopo gli ultimi studi del Desimoni, che fu in questa materia facile princeps.

Se la Marca aleramica comprendeva, come è stato dimostrato dal Desimoni, i tre Comi

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