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da fare la cupola, la capella di S. Amedeo ed il lastrico, essendosi dall'anno 1757 a questa parte speso più di 100m lire, senza le elemosine ed i materiali e pietre della fabbricazione date da S. Maestà Carlo Emanuele III ».

Il cav. Federico Mella mi mostrò la copia di una pianta di Vercelli, che, nel suo originale, risaliva al 1617 incirca. Vi sono segnate le cinque navate; le colonne sono 36, distribuite in quattro file, a nove colonne per ciascheduna.

Nella biblioteca di Sua Maestà vedesi una piccola « Pianta della città di Vercelli » della metà incirca del sec. XVIII. Vi è abbozzato anche il piano della chiesa di S. Eusebio », che qui riproduco. Il disegnatore si limitò

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ad indicare tre navate, e restrinse a quattordici il numero delle colonne, distribuite in due file di sette colonne ciascuna (v. il disegno qui inserto n. 1).

Un'altra pianta di Vercelli vedesi anche nel Theatrum Statuum regiae Celsitudinis Sabaudiae ducis Pedemontis principis, Cypri regis, pars II, Amstelodami, apud haeredes Joannis Blaev, 1682, a pp. 117-20, dove alla tavola, colla pianta della città, si unisce un'altra pianta, in cui Vercelli è riprodotta a volo d'uccello. Di quest'ultima tavola, che ci dà uno schizzo della facciata, non mi occupo. Riproduco invece (n. 2), togliendola dall'altra tavola, la pianta della basilica, che ha cinque navate, e quattro fila di colonne, ciascuna composta di otto colonne.

Di passaggio osservo che la somiglianza fra la pianta della basilica Vercellese e l'antica basilica di S. Pietro a Roma, avvertita dal canonico Modena, è perfettamente esatta (1).

Con buone ragioni F. Savio (2) sostenne che probabilmente la basilica fu costruita dall'imperatore Teodosio, secondo che nel sec. XI riferiva Benzone, vescovo d'Alba.

(1) Veggasi la pianta della basilica di S. Pietro, disegnata, secondo le ultime ricerche, presso H. GRISAR, Geschichte Roms u. der Päpste, I, 217.

(2) Op. cit., p. 403.

S. Flaviano, vescovo di Vercelli (che morì nel novembre del 540, ind. IV, secondo che apprendiamo dal suo titolo sepolcrale) decorò con alcuni mosaici l'abside di S. Eusebio, e dedicolli con una iscrizione, che il Modena trascrisse in altra sua opera, oggi pur troppo perduta (1).

Solo per congettura suppose C. Gazzera (2), che si dovessero attribuire a S. Flaviano anche i dipinti, che, riprodotti sopra una pergamena dell'archivio Capitolare, attrassero la sua dotta attenzione. Sono le rappresentazioni accennate dal Modena, dove parla della navata centrale della basilica « tutta dipinta degli Atti Apostolici ». Vuolsi peraltro notare che il Gazzera non intende parlare della navata, ma della cupola, ritenendo egli che la « antica pittura, cui ora si accenna, adornasse la « testudine o cupola, che si ergeva sulla navata di mezzo del tempio Eusebiano ». Il Gazzera, mentre illustra varie delle istorie ritratte sulla pergamena, e mentre, più o men bene, ne riproduce tre a facsimile, non dimentica i versi leonini che le accompagnano. Nè si induce a credere che quei versi si possano attribuire a S. Flaviano e al VI secolo, ma suppone arbitrariamente che siano stati aggiunti allorchè prima del mille venne ordinata la copia, che è conservata nel rotolo pergameno dell'archivio Capitolare » (3).

Queste ipotesi del Gazzera sono inoltre in parte fondate sia sopra ragioni artistiche, sia sopra due distici in versi leonini, che chiudono i due lati della riproduzione pergamenacea.

Il panneggiamento delle figure, la forma dei carri e delle mobilie indicano al Gazzera l'età romana (4). Si può acconsentire volentieri a lui nel riconoscere nei vestiari e nei carri qualche cosa d'antico, ma questo serve solo a dimostrare la persistenza delle vecchie tradizioni, le quali sono anche più evidenti nelle istorie che illustrano il Sacramentario del b. Warmondo, vescovo d'Ivrea. Questo Sacramentario spetta al tempo di Ottone III († 1002) (5). Il Gazzera poteva notare altresì l'architettura che nello sviluppo di alcuni edifici, gli denunciava più tarda età. È verissimo che le mura merlate, rappresentate in vari riquadri, e una colonnina torciata col capitello corinzio, ricordano il gusto dell'età classica, o almeno ad esso non contraddicono. Ma, come si diceva, non tutti i particolari architettonici possono conciliarsi coll'opinione del Gazzera. Si rifletta specialmente alle chiese, colle coronazioni ad archetti. E meglio ancora il distacco appare evidente, quando vogliamo riflettere alla differenza tecnica, che separa questi disegni dalle celebri illustrazioni di Terenzio, di Omero, ecc., le quali dipendono senza dubbio, per via diretta, dalla tradizione classica, e che nessuna relazione hanno colle pitture di cui ora mi occupo.

(1) BRUZZA, op. cit., pp. 341-42. Non so vedere perchè questo esimio critico dalla ind. IV segnata sulla lapide deduca che S. Flaviano mori nel 542. Trattandosi naturalmente di indizione costantinopolitana, e del mese di novembre, dobbiamo risalire al 540. Nel C. L. L. V, 2, n. 6728, vien detto « Flavianus episcopus creditur obiisse c. a. 542. »

(2) Delle iscrizioni cristiane antiche del Piemonte, Mem. Accad. Torino, II serie, XI, scienze morali, p. 237.

(3) GAZZERA, op. cit., p. 240.

(4) Op. cit., p. 241.

(5) Veggansi le tavole XXIII e XXIV dell'Atlante paleografico-artistico composto sur manoscritti esposti nel 1898 in Torino alla Mostra d'Arte Sacra, Torino, 1899.

Del pari, i due distici cui alludevo non dànno appoggio ad alcuno degli argomenti del Gazzera. Essi dicono: a) « † Hoc notat exemplum media testudine templum, Ut renovet novitas quod delet longa vetustas. » b) « Hic est descriptum media testudine pictum Ecclesie signans ibi que sunt, atque figurans. »

Non c'è motivo a supporre che la parola testudine indichi la cupola, piuttosto che la navata.

A quelle ragioni, che dipendono dal valore stesso della parola, si aggiungono altre considerazioni, e queste sopra tutte vanno apprezzate, che cioè le testimonianze parlano sempre della navata, e che nessuna cupola ebbe l'antica basilica.

Nè minori difficoltà incontra il giudizio del Gazzera sull'età del disegno pergamenaceo, il quale non è certamente anteriore al mille, come egli crede. Nelle leggende le lettere in carattere romano si mescolano con quelle in carattere gotico, che generalmente può dirsi della prima maniera, quantunque qui e colà alcune lettere dimostrino un processo calligrafico molto progredito. Il carattere della leggenda presenta infatti alcune lettere che accennano al gotico ormai formato, anzi alcune lettere sono ricche di ornamentazioni e di apici. Accanto a queste lettere, che ci farebbero pensare ad una età abbastanza avanzata, e precisamente alla metà del sec. XIII, ne troviamo molte altre che si legano alla tradizione più antica, e conservano il tipo romano. Abbondano le E di forma capitale. Anzi vi si trovano anche alcune C di forma quadrata. Con ciò siamo mandati addietro verso il principio del sec. XIII, o anche verso la seconda metà del secolo antecedente. Ma bisogna osservare che l'artista copiando e pitture e leggende si preoccupò evidentemente d'imitare gli originali che avea sott'occhio. Si può anzi dimostrare che a lui non era famigliare la C quadrata, poichè talvolta la confuse anzi colla E (v. ai quadri segnati coi numeri 4 e 12 nella descrizione che seguirà), il che è significativo.

Colui che eseguì la copia si propose di star ligio all'originale. Nè contro questo giudizio difficoltà alcuna si può ricavare dagli errori in cui cadde. Si pensi a cagion d'esempio a « propte Christe» per « pro te, Christe» del quadretto 18. Tali errori non modificano il concetto che noi dobbiamo farci sulle sue intenzioni.

Per questo attribuiremo volontieri all'originale anche la frequenza dei nessi e delle lettere inserte, e così pure la mancanza dei dittonghi. Nè a siffatta conclusione nulla si può opporre, considerando che il copista si comporta egualmente nei due distici, evidentemente suoi o del tempo suo, coi quali chiude quinci e quindi il suo disegno.

Tutte queste considerazioni, se ci fanno pensare al sec. XI o al seguente per la esecuzione delle pitture, c'inducono a proporre il sec. XIII per la esecuzione della copia. Molte lettere ci consiglierebbero di proporre il principio di questo secolo, ma è più prudente dar maggior peso invece alle lettere che indicano un'età meno antica. Così le due E perfettamente gotiche e perfettamente chiuse, che si trovano nella parola « exemplum » del distico Hoc notat exemplum, etc., non possono passarsi qui inavvertite.

Per questi motivi mi restringo a parlare del sec. XIII, e non distinguo in esso alcun periodo speciale cui attribuire il disegno di cui ci occupiamo.

Quanto dicemmo sulla collocazione delle pitture nella basilica viene rafforzato da un'altra di diversa natura. Il disegnatore copiò le istorie sopra due

ordini, divisi da un intervallo centrale. I due ordini delle istorie si trovano disposti così, che questi si trovano in reciproca opposizione. Ciò non accenna certamente ad una cupola. Invece è evidente che noi possediamo qui due serie di quadri, ciascuna corrispondente, lato per lato, alla zona del piedritto della navata, piedritto che si innalza sopra la sommità degli archi gettati fra colonna e colonna. La fascia che rimane vuota, fra i due ordini predetti, rappresenta la volta della navata. Possiamo quindi ritenere che la nostra tesi sia sufficientemente dimostrata. Bisogna peraltro notare che dal più al meno questa tesi fu messa in campo da varî, e specialmente dal conte E. Arborio Mella, nel lavoro al quale ora accennerò.

Nell'archivio Capitolare di Vercelli conservasi un opuscolo manoscritto dell'architetto e storico testè lodato, E. Mella, il quale vi assegnò alle pitture eusebiane il periodo che va dalla metà del sec. XI alla metà del sec. XII. A questa opinione aderì anche il Savio, ed è opinione per se stessa molto probabile. Solo si può osservare che una delle ragioni che facevano presa sulla mente del Mella per prolungare fino alla metà del XII secolo il periodo cui le pitture in discorso si possono ascrivere, la mancanza dell'arco acuto, ora non serve più in forma assoluta, poichè ben si sa che tale arco cominciava ad entrare nell'uso già al principio del sec. XII.

Si può riflettere anche alla natura dei versi in cui sono composte le leggende esplicative. Sono versi leonini, e į versi di tal genere erano già diffusi in antico, come espone il Muratori (1), senza che ci sia bisogno d'aspettare fino all'abbate Leone, che fiorì solo al cadere del XII secolo. Grave indizio sull'età dei dipinti possiamo trovarlo nella necessità di ammettere una certa distanza fra la dipintura e la sua rappresentazione grafica (2). Conchiudendo, dai versi nulla si può desumere contro la fatta ipotesi, che le pitture siano del sec. XI cadente, mentre la pergamena, che ne conservò ritratte le istorie, non può dirsi anteriore al principio del sec. XIII, ed è probabilmente posteriore a questa data.

Rohault de Fleury nell'opera Les Saints de la Messe et leurs monuments, sotto i SS. Pietro e Paolo, riprodusse, in proporzioni molto ridotte, e senza mostrare il necessario scrupolo di esattezza, la pergamena vercellese.

Egli si giovò della copia accuratamente fattane nel 1877 dal conte Mella (3). La pergamena misura in lunghezza m. 1,80 e in larghezza cent. 60. Contiene, disegnate ad inchiostro, con amore, diciotto istorie, che vi si trovano distribuite in due ordini, così che le nove istorie di un ordine sono collocate in senso inverso alle nove storie dell'altro ordine.

La tavola è chiusa lateralmente dai due distici già riferiti, che sono scritti in grandi maiuscole per lo più gotiche. E cioè, al principio, a sinistra, dal distico: Hoc notat exemplum media testudine templum, Ut renovet novitas, quod delet longa vetustas », e a destra, al fine, da quest'altro: « Hic

(1) Antiq. Ital., III, 687 segg. Il Muratori stabilisce che i versi rimati furono usati dal più antico medioevo. Ma lascia dubitare che forse i versi rimati propriamente detti leonini, ancorchè antichi assai, entrassero nell'uso comune solo verso il secolo XI.

(2) Il distico Hoc notat parla infatti di « longa vetustas ».

(3) Facsimile di antiche pitture nella volta della nave maggiore dell'antica basilica di S. Eusebio in Vercelli, ms. presso il figlio cav. Federico Mella.

est descriptum media testudine pictum, Ecclesie signans ibi que sunt, atque figurans ». Le parole: « ibi que sunt » sono molto abbreviate, e sopra alle prime due una mano del sec. XIII scrisse in minuscolo, a modo d'interpretazione: < ibique ».

Le istorie si possono considerare divise in tre gruppi, il primo dei quali comprende otto istorie, quattro del primo e quattro del secondo ordine. Altrettante istorie costituiscono il secondo gruppo. Infine, il terzo gruppo è costituito da due sole istorie. Ma queste due istorie sono d'assai più grandi delle rimanenti, le quali invece sono fra loro tutte uguali per dimensioni. Sorge quindi naturale l'ipotesi che le istorie piccole corrispondano agli archi della nave vera e propria, mentre le altre due maggiori si riferiscano alla crociera, di cui ornassero i piedritti sopra i due archi laterali, se questi non erano molto elevati.

Il disegnatore eseguì dunque l'opera sua in tre volte, e divise in tre gruppi le istorie. Le intelaiature, entro alle quali chiuse le istorie, sono tre, cioè per tre volte, egli, come si suol dire, riquadrò la sua carta. Per tre volte quindi trasportò lungo la navata della chiesa la pergamena, i compassi, l'inchiostro, il tavolo su cui lavorava. Con ciò egli si facilitava il lavoro, ostacolato quinci dalla grandezza della navata, quindi dalla lunghezza della pergamena. Ma probabilmente gli avvenne di cadere in una svista, poichè pare che il corpo mediano sia stato eseguito colla pergamena capovolta, e le rappresentanze vi siano state copiate in senso inverso. Per ristabilire l'ordine, egli segnò al basso di parecchi fra i riquadri alcune indicazioni, e cioè: « primo » « secundo >> « tertium » « quartum » « quintum » « sextum » « et ultimum ». Naturalmente, con queste note egli di solito alludeva alla sola istoria presso al quale ciascuna di esse era collocata, ma talora (e precisamente nel caso di « primo» e di << tertium ») egli alludeva a più istorie. Dal computo rimanevano escluse le due istorie della crociera, e così colle menzionate indicazioni egli ristabiliva esattamente la serie. Naturalmente lasciò senza numeri le prime quattro istorie perchè erano a posto.

Per ciò si può credere che le 18 pitture della navata occupino nel disegno l'ordine seguente, assunto il numero 1 per la discesa dello Spirito Santo, e il numero 18 per la persecuzione contro S. Paolo:

18 17 16 15 8 7 6 5 ΙΟ

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Ammessa per vera questa ipotesi, viene spiegato sufficientemente l'ordine dei dipinti, e quest'ordine corrisponde quasi del tutto a quello che i fatti tengono negli Atti Apostolici. Rimarrebbero un po' spostate soltanto le due pitture maggiori, che d'altronde costituiscono tecnicamente un tutto a sè. Soggiungo qui un cenno sulle 18 istorie.

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A. La prima serie delle istorie di minori dimensioni.

Discesa dello S.S. in forma di fuoco (Atti Apost., c. II).

Gaudent promisso de celo munere misso,

Quo doceant gentes linguam cuiusque loquentes.

2 Misc., S. III, T. VI.

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