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uncias sex. et post penam absolutionis huius charte seriem In suam nihilominus maneat firmitatem. Has autem duas chartas uno forme conscriptas. mihi theodoro magister census urbis rome scribendas pariter dictauerunt. Easque propriis manibus roborantes. Testibus a se rogitis optulerunt subscribendas. et siui inuicem tradiderunt. sub stipulatione et sponsione sollemniter interposita. Iohannes sancte tyburtine ecclesie sanctissimus episcopus. Munolfus presbiter manu sua roborauit. Adrianus manu sua roborauit. Caliopus manu sua roborauit. Testes. Georgius filius Constantini. Anastasius petalarius. Paulus negotiator. Christoforus negotiator. Theodorus magistro cense urbis rome compleuit et absoluit.

manu mea roboraui.

Don Leone Allodi fu il primo che si avvedesse che la raschiatura fu fatta çolla intenzione di fare sparire tutto il documento, per trascrivervene un altro in suo luogo, come si vede che fu fatto in altre parti del codice, dove furono rase interamente altre scritture, ed altre ve ne furono rescritte. Il Troya deplorò che la raschiatura avesse distrutte le note cronologiche e per congettura assegnò la carta all'anno 763. Ora il testo fu restituito, ma non sappiamo nulla di più di quello che già era noto, perchè senza punto determinare l'anno in cui fu scritta, si dice soltanto che allora regnavano gli imperatori Costantino e Leone, che sulla cattedra apostolica sedeva il pontefice Paolo, e su quella di Tivoli il vescovo Giovanni. L'Ughelli la riferì, senza alcuna prova, al 758, nel quale già si sapeva che Giovanni era vescovo, perchè per altri documenti si ha notizia di lui dal 743 al 761, benchè non si sappia quando cominciasse e finisse di governare quella chiesa. Possiamo però restringere fra un certo numero d'anni il tempo in cui fu scritta se si osserva che nella intestatura e nella formola del giuramento si ricordano gli imperatori d'Oriente Costantino V Copronimo e Leone IV Chazaro che dal padre fu associato all'impero l'anno 751, e che gli anni del pontificato di Paolo I si numerano dal 29 maggio 757 al 28 giugno 767 (Jaffè

1 Queste due parole magister census nel margine del codice dallo stesso scrittore vengono corrette o cambiate con quest' altre magistro cense.

ad ann.). Appartiene adunque ad alcuno degli anni di questo decennio, ma non si può dire quale sia.

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Nel qual tempo Roma, abbandonata a se stessa dai Greci, nei gravi ed imminenti pericoli, onde era minacciata dai Longobardi, il cui re Astolfo era anzi stimolato da essi ad insignorirsene, e già separata di fede e di religione da loro per lo scisma degli iconomachi, dovendo provvedere da sola alla sua difesa e opporsi alla propagazione dell'eresia, riacquistò piena libertà e signoria di se stessa. Di che è chiaro segno in questa carta vedendo che il giuramento è dato pel principato della Sede Apostolica, e per la salvezza del Papa. In fatti i Bizantini più non riscuotevano "tributo dalla provincia romana, nè v'erano più nella città ministri bizantini che vi esercitassero autorità. Roma al pari di Ravenna s'era liberata dall' imperatore, e questi doveva pensare „ a riconquistarla, (Gregorovius Stor. di Roma ecc. ad ann. 760 T. II p. 251, ed. Ven. 1872). Pertanto se nei diplomi e negli atti pubblici si continuava a notare gli anni degli imperatori, non era perchè con ciò si prestasse omaggio alla loro sovranità, ma per consuetudine e pel rescritto della legge di Giustiniano, che comandava che nelle scritture pubbliche, le note cronologiche si segnassero cogli anni del regno degli imperatori (Novell. XLVIII ann. 537). Perciò oltre alla carta tiburtina le vediamo egualmente segnate nelle Bolle di Paolo I, come in una del 759 all'arcivescovo di Ravenna (Jaffè p. 195; Muratori Annali ad ann.; Troya Cod. Dipl. Lang. n. 732 p. 50), in altra al clero e popolo di Nardò del 761 (Chron. Nerit. R. I. Scr. p. 886; Troya op. cit. n. 769 p. 135) e nel Costituto che Paolo pubblicò nel Concilio romano del medesimo anno, al quale intervenne Giovanni vescovo di Tivoli, a favore della chiesa dei SS. Dionigi e Silvestro di Roma (Baronio Ann. XII, p. 662 ed. Luc.; Troya op. cit. V p. 133). Queste adunque non erano che formole cronologiche; e benchè da esse non si possa argomentare che gli imperatori conservassero ancora in Roma l'autorità e signoria, il Muratori (ad ann. 759)

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mostrò di credere che potessero servire di qualche fondamento a chi fosse d'avviso contrario. Ma il Troya, scrivendo di Pipino, osservò che gli anni del Difensore si mettono qualche volta nelle carte di Roma, non perchè Pipino re ne fosse il sovrano; ma per additare storicamente il tempo, in cui occorreva un qualche fatto de' più notabili, onde si volea conservar la memoria. Valga ciò di documento per viver certi, che l'essersi ritenuti gli usi primieri di segnar le Bolle de' Papi ed altre carte cogli anni degli Imperatori Bizantini stavano in luogo di note cronologiche, quando non si conosceva il modo più facile del metter gli anni di Gesù Cristo: e che siffatte note cronologiche non additarono più dopo il 726 la sovranità dei Greci Augusti sopra Roma ed il suo Ducato, allo stesso modo che non additavano quella del Difensore Pipino. E chi ardirebbe credere che Costantino Copronimo fosse riconosciuto per , sovrano di Roma, quando egli minacciava di spedir le sue navi pel conquisto di Ravenna e per riavere il Ducato Romano? (Cod. Dipl. Lang. V p. 134, cf. p. 202).

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I due oliveti che il vescovo Giovanni concedette con questa carta a livello enfiteutico all'Abbate di S. Erasmo, erano l'uno in civitate tiburtina sub crepidine, venti miglia circa da Roma, l'altro due miglia circa da Tivoli in luogo quod appellatur Casella iuxta Sanctum Severinum. Dalla chiara affermazione del testo e dalla aggiunta della distanza da Roma è accertato che il primo fondo era nell'ambito della città, ma dove fosse la crepidine sotto alla quale era il fondo, restò ignoto finora ai topografi tiburtini. Tuttavia, se può valere una congettura, convenendo il nome di crepidine più che a qualsivoglia altra parte, a quel tratto di pendice che bagnata dal fiume si estende dalla Strada maggiore all'ospedale di S. Giovanni, ed esprimendo esso così il riparo che la roccia, sulla quale è parte della città, oppone al fiume, come la via che doveva corrervi sulla cima, parmi che Tivoli non avesse altro luogo che più propriamente si dovesse dire crepidine. Essendo

poi che la roccia nel pendio verso il fiume ha la china più o meno larga ed alberata, nulla si oppone che in quel tempo non vi fosse un tratto con venti alberi di olivo, che il vescovo Giovanni concedesse in enfiteusi all'abbate Anastasio.

L'altro fondo che con vocabolo parimente antico dicesi Casella, che è lo stesso di capannella o casuccia (De Vit Glossar.) era fra la Valeria e l'Aniene, lungi un miglio e mezzo circa da Tivoli, dove ora dicesi Carrata della Crocetta sotto il Monte del vescovo, che si collega col Catillo, ma non è il Catillo medesimo, come ha creduto il Nibby (Viagg. antiq. T. I p. 191). Di quivi poco discosto era il fundus pensionis, nel quale era un casale o villaggio abitato, e la pieve di S. Stefano de Olibe in Casella (Reg. Tiburt. p. 20, 1. 37), che fu detta pure di S. Maria e S. Severino. Come dimostra la carta di enfiteusi e lo confermano le bolle pontificie (R. T. 34, 18; 35,2; 44, 15; 45,2; 61, 34) il luogo dove fu edificato il monastero era proprio dell'episcopio, al quale perciò pagava un annuó censo. Della chiesa di S. Severino ne fa illustre testimonianza il Libro Pontificale da cui sappiamo che fu innalzata dai fondamenti da Onorio I (625-638): Fecit ecclesiam beato Severino a solo iuxta civitatem tiburtinam milliario ab urbe Roma vigesimo, quam ipse edificavit et dona multa obtulit (ed. Bianchini I n. 120, p. 121). È errore però degli amanuensi se qui e nella carta si legge vigesimo invece di vigesimo primo o secundo, poichè assegnando questa giustamente la distanza di venti miglia al fondo che era sotto la crepidine, non poteva assegnare la medesima distanza a quello di Casella che n'era più d'un miglio lontano. È adunque manifesto che i copisti omisero di aggiungere una o due aste al numero XX, e questo apparirà anche più chiaro per quello che avremo occasione di dire in altro luogo.

Paragonando colla carta d'enfiteusi l'elenco dei censi dovuti a S. Lorenzo che fu compilato dal vescovo Uberto nel 945, vediamo che si tace del fondo crepidine e del soldo annuo che il monastero de Olibe doveva pagare per detto fondo insieme coi

due soldi dovuti pel fondo di Casella e pro universas suprascripte arbores (R. T. 20, 37). Questo silenzio conferma la congettura che ho esposta, che il fondo sotto alla crepidine fosse prossimo alla sponda del fiume, onde parmi verosimile che svelti e portati via gli alberi da una piena prima del 945, e divenuto il fondo infruttifero, cessasse il debito di pagare il soldo pattuito, e perciò fosse escluso dal numero di quelli che pagavano canone all'episcopio.

Comunque ciò sia, il vescovo conservò diritto sul fondo dove sorgeva il monastero, e mantenne la giurisdizione civile e giudiziale sopra gli uomini liberi e sopra i servi che abitavano nel casale, e gli fu confermata dalle bolle di Benedetto VII, Giovanni XV e Giovanni XIX, dichiarando il luogo libero e immune da ogni autorità e giurisdizione di Conte, di Gastaldo e di qualsivoglia altra persona che avesse pubblica autorità.

Dopo l'anno 1029 non si ha più alcuna notizia di questo luogo, e l'obblìo in cui cadde fece anche perire ogni memoria della vita e delle azioni del Santo. Non sappiamo di lui che quel pochissimo che si legge nei brevissimi cenni dei martirologî, fra i quali quel di Usuardo (ed. Sollerii p. 641) e di Adone (ed. Georgii p. 555) lo ricordano come monaco e cittadino di Tivoli, e come gli altri ne assegnano la sepoltura (depositio) il giorno primo di Novembre. L'età in cui visse e fiorì fu senza dubbio intorno alla metà del VI secolo, e conviene a far credere che se non fu discepolo, fu certamente imitatore e seguace di S. Benedetto. Il Bucelino lo enumerò fra i santi del suo istituto (Menolog. Benedict. p. 750), ma sembra che il Mabillon ne ignorasse perfino il nome, poichè non ne fa alcuna menzione. La diocesi di Tivoli ne festeggia ora la memoria il 23 di maggio, che è il giorno della seconda sua traslazione, quando dall'altare maggiore di San Lorenzo fu trasportato alla cappella dove ora si venera (Giustiniani Vesc. di Tiv. p. 21). A far fede del culto che già ebbe sul luogo, dove pare che vivesse penitente e solitario, restano alcuni

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