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A complemento di quanto finora abbiamo detto intorno al tritume porporino della basilica dei XII Apostoli, resterebbe a ricercare se i filamenti di diverso colore in esso trovati provengano da un unico drappo, il quale fosse a più tinte, oppur ricamato, ovvero da due o più tessuti di diverso colore. Rispondere a questo quesito è cosa non solo difficile, ma impossibile. Gli antichi sapevano tessere drappi con fili di di diversa tinta, ed erano queste le opere polimite (1); in Egitto si conosceva l'uso dei mordenti, mediante i quali con un medesimo bagno, ottenevano nello stesso tempo più colori sul medesimo tessuto (2), come pure è antichissima l'arte del ricamo e tra la vesti ricamate erano assai rinomate quelle di Babilonia (3). Spessissimo vengono dai classici ricordati gli abiti d'un sol colore, e quelli che erano arricchiti di molte tinte; parlano di vesti variate, variegate, cangianti, dipinte, ricamate, ornate di meandri, di frangie, nastri e

(1) PLINIUS, Op. cit., lib. VIII, § LXXIV. Plurimis vero liciis intexere, quae polymita appellant, Alexandria instituit.

LUCANUS.

Pars auro plumata nitet, pars ignea cocco
Ut mos et Phariis miscendi licia telis.

(2) PLINIUS, Op. cit,, lib. XXXV, § XLII. Pingunt et vestes in Aegypto inter pauca mirabili genere, candida vela postquam adtrivere illinentes non coloribus, sed colorem sorbentibus medicamentis. Hoc quum fecere, non adparet in velis: sed in cortinam pigmenti ferventis mersa, post momentum extrahuntur picta. Mirumque quum sit unus in cortina colos, ex illo alius atque alius fit in veste, accipientis medicamenti qualitate mutatus. Nec postea ablui potest; ita cortina non dubie confusura colores, si pictos acciperet, digerit ex uno, pingitque dum coquit.

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(3) PLINIUS, Op. cit., lib. VIII, § LXXIV. Colores diversos picturae intexere Babylon maxim celebravit, et nomem imposuit.

MARTIALIS, lib. VIII, ep. 28.

Non ego praetulerim Babylonica picta superbe
Texta, Semiramia quae variantur acu.

PLAUTUS.

Babylonica peristromata, consuta tapetia.

cordoncini, porporini, coccinei, azzurri e di tutti quanti i colori, dalle gradazioni più belle e più vive alle più tenere e delicate.

Ciò non di meno considerando che i filamenti di lino azzurro-violetti esistenti nel polviscolo analizzato sono in numero presso a poco uguale a quello dei filamenti di lino rossi, quando invece quelli di lana in confronto sono pochissimi, si potrebbe ammettere, come verosimile, che il detto polviscolo provenga dalla distruzione di un unico drappo di lino, intessuto di violetto e di rosso e ricamato con lana rossa; e forse era una di quelle opere polimite a due licci il cui prezzo arrivò a vincere quello de' ricami babiloniesi (1).

Quindi riepilogando queste nostre conclusioni, noi diciamo che a nostro avviso il tritume porporino trovato nell' urna d'argento nella basilica dei XII Apostoli proviene da un' antichissima tela di lino la quale probabilmente era tessuta a due fili, l'uno de' quali rosso (coccineo) e l'altro azzurrovioletto (fucato), il cui colore nell'insieme doveva essere d'un porporino piuttosto vago ed elegante, la quale si può ammettere che fosse arricchita d' ornamenti fatti con lana. rossa. Non è dunque improbabile che quella sindone o veste antichissima fosse un'opera polimite alessandrina di color porporino, con guernizioni, ricami o frangie coccinee.

Inoltre noi crediamo che la sostanza minerale azzurrovioletta che in tanta copia trovammo mista coi filamenti tessili, sia un residuo del colore dato col pennello con cui in tempi remotissimi era stato decorato l'antichissimo sepolcro dove prima di papa Giovanni III giacevano le ossa degli apostoli Filippo e Giacomo minore. Forse è questo un saggio di quel colore che i Romani chiamavano ceruleo e che met(1) MARTIALIS, lib. XIV, ep. 150.

Haec tibi Memphitis tellus dat munera: victa est
Pectine niliaco jam Babylonis acus.

tevano sui muri ovvero sui legni ricoperti d'un intonaco calcare (1), oppure è una specie di porporisso adulterino, del più carico di tinta, il quale serviva agli stessi usi e si adoperava nel medesimo modo, ora isolato, ora invece con altri colori, e non di rado col ceruleo, se volevasi imitare

la porpora.

Questo lavoro venne eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Genova.

SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA

(Continuazione da pag. 75)

XXIII.

SEZIONE DI ARCHEOLOGIA.

Tornata del 6 Luglio 1877.

Presidenza del Preside can. prof. ANGELO SANGUINETI.

11 socio D. Marcello Remondini legge la seguente Dissertazione intitolata: Come debba reintegrarsi la supposta iscrizione dei Sapienti Pisani, già nella chiesa di San Domenico in Genova.

e

Fra le iscrizioni medioevali, che nel mio continuo ricercare di esse, a seconda dell' onorevole incarico cui tengo da Voi, stimatissimi Soci, solleticassero di più la mia curiosità, accendessero in me vivo desiderio di rinvenire, si è una la quale accennerebbe ai Sapienti Pisani fatti prigionieri alla Meloria, morti in Genova e sepolti nella chiesa di San Domenico, secondo che lessi nella monografia della chiesa di San Matteo dettata dal nostro compianto collega Jacopo D'Oria. Il quale al capo III dice, che tra i prigionieri fatti in quella occasione furono diciasette Sapienti; e nella relativa xxx il

(1) Argilla, gesso, creta.

lustrazione scrive: « Il Du Cange nota come Aulo Gellio chiamò Sapientes i maestri di diritto, e come nel medio evo avessero in Italia pur tale appellazione i primarii cittadini, col consiglio dei quali erano le cose pubbliche amministrate. Quelli fra i Sapienti di Pisa, che morirono prigionieri in Genova, vennero tumulati nella chiesa di San Domenico. Sul loro sepolcro, quando nel 1300 si conchiuse la pace fra le due avverse Repubbliche, fu scolpita la seguente iscrizione, cui il Piaggio ed il Paganetti ci conservarono :

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Confesserò che sprone ancora più forte a questa ricerca fu in me un certo sospetto, che la recata iscrizione non sia punto genuina.

Donde abbia desunto il D' Oria che questi Sapienti di Pisa fossero in numero di diciasette non saprei, chè egli nol dice: sta per altro che così il Piaggio come il Paganetti ci danno entrambi in questi precisissimi termini la epigrafe. Ed io metterei pegno che il nostro socio riposò interamente sulla fede di questi due raccoglitori, e soltanto cercò di ingegnosamente spiegarla.

Ciò posto, lasciamo in pace il D' Oria, e facciamoci a interrogare il Piaggio e il Paganetti. Ma essi non parlano; e si tengono paghi di darci la iscrizione come esistente nella chiesa di San Domenico. D'altra parte sono così perfettamente concordi nel riportarla, da farmi nascere in cuore un altro sospetto sul conto loro: cioè che il Paganetti, scrittore del 1766, l'abbia avuta o tolta dal Piaggio il quale fin dal 1720 la ponea nella sua raccolta. Di modo che questi due

testimoni si ridurrebbero a un solo: il Piaggio. Il Paganetti si sa che si rimetteva facilmente alle relazioni altrui; ed è per ciò, io penso, che in fatto iscrizioni sono ne' suoi vo!umi tanto stampati che manoscritti inesattezze ad ogni piè sospinto.

Ma l' avranno altri, mi direte voi. No, per quante indagini io m'abbia fatto. Nè il Pasqua che raccolse prima di loro nel 1610; nè il Giscardi che, mezzo fra loro, compilava nel 1754 una sua doppia raccolta; nè l'Acinelli, nè altri che mi sappia fra gli antichi e moderni. Il Piaggio adunque la ci diede, e non altri che il Piaggio.

Però i marmi scritti che erano in San Domenico fortunatamente son salvi, almeno per la massima parte. Ce ne è uno al Municipio, uno nel palazzo Spinola in Pellicceria, uno a Santa Maria di Sanità; altri si trovano in San Matteo, altri in San Pancrazio, altri alla porta dell' oratorio della Concezione in Castelletto; una grandissima parte poi nella nostra Università. Dunque si cerchi questo epitaffio, e chi sa?

Cosi pensai, e così feci. - Ma vana fatica! Tra i più che trecento pezzi di marmo che appartengono alla distrutta chiesa di San Domenico da me veduti, nè uno che abbia l'epigrafe di cui parliamo.

Per altro non fu tutta fatica sprecata. Ne trovai uno al quale il Piaggio non accenna nè punto nè poco, e che mi dà luogo a induzioni meritevoli, a veder mio, di essere sottoposte al vostro giudizio, per venire a due non dispregevoli risultati; cioè l'eliminazione di una epigrafe creduta esistere ma non mai esistita, e la riunione delle due metà di una epigrafe sola, fin qui malamente divise come fossero due iscrizioni a parte, cosi nella raccolta scritta del Piaggio come in quella dei marmi che è nelle scale del nostro Ateneo.

Il marmo a cui accenno, è un pezzo a cilindro, il quinto de' sei (a contare dall' alto in basso) de' quali oggi là in

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